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    26 settembre 2024

    La responsabilità precontrattuale

    Durante le trattative contrattuali, le parti coinvolte sono tenute al rispetto di alcuni obblighi ben precisi, la cui violazione può determinare l’insorgere di una responsabilità precontrattuale a carico della parte inadempiente. La responsabilità precontrattuale (detta anche culpa in contrahendo) nasce, quindi, in una fase precedente la conclusione del contratto e si ricollega a un comportamento scorretto di una delle due parti a danno dell’altra.  In particolare, gli obblighi che le parti sono tenute a rispettare sono: Obbligo di buona fede: impone alle parti coinvolte di evitare tutte quelle condotte che arrechino intenzionalmente e consapevolmente danno alla controparte;Obbligo di informazione e verità: le parti sono tenute, nel corso delle trattative, a comunicarsi reciprocamente tutte le circostanze che possono determinare l’inefficacia o l’invalidità del contratto, nonché l’inutilità della prestazione;Obbligo di chiarezza e riservatezza: impone alle parti di comunicare in modo trasparente tutte le informazioni relative alla negoziazione e di non divulgare all’esterno tutte le informazioni confidenziali scambiate tra le parti.  Generalmente, si ha responsabilità precontrattuale in caso di: recesso ingiustificato dalle trattative, che si configura quando chi ha creato nella controparte un incolpevole e legittimo affidamento in ordine alla conclusione del contratto decide di recedere, provocando un danno;conclusione di un contratto invalido o inefficace: per negligenza o dolo di una parte viene concluso un contratto invalido e inefficace; la controparte deve dimostrare di aver attuato tutte le precauzioni normalmente richieste in sede di trattative per accertarsi della regolarità dell’affare;conclusione di un contratto valido, ma svantaggioso, ossia concluso a condizioni meno vantaggiose rispetto a quelle che la controparte avrebbe ragionevolmente accettato ove fosse stata a conoscenza di tutte le informazioni rilevanti. Ma quali sono i rimedi esperibili dalla parte che si renda conto della violazione degli obblighi gravanti sulla controparte?  Nel caso in cui siano ancora in corso, la parte potrà recedere dalle trattative giustificatamente, senza rischiare, cioè, di essere a sua volta chiamata a rispondere a titolo di responsabilità precontrattuale. Nel caso in cui, invece, le trattative siano già concluse, si potrà chiedere il risarcimento dei danni subiti per effetto della condotta negligente o dolosa della controparte. Si ritiene tradizionalmente che il danno risarcibile coincida con il ristoro del solo “interesse negativo”, vale a dire dell’interesse che la parte avrebbe avuto a non entrare in trattative con il soggetto cui venga ascritta la responsabilità precontrattuale. In particolare, sarà risarcibile, nel termine di prescrizione decennale, il c.d. danno emergente – comprensivo di tutte le spese che la parte abbia sostenuto in occasione delle trattative, come i costi di viaggi effettuati per sopralluoghi, costi sostenuti per consulenze professionali, ecc. – e il c.d. lucro cessante, cioè la perdita di occasione di affari: se una parte rifiuta/rinuncia ulteriori proposte confidando sulla bontà delle trattative instaurate con la controparte, avrà diritto al risarcimento del danno per la perdita dell’affare alternativo.   Non è, viceversa, risarcibile il c.d. “interesse positivo”, vale a dire l’interesse a ottenere la prestazione che avrebbe conseguito la parte attraverso la conclusione del contratto: nella fase delle trattative, infatti, non essendo ancora stato concluso alcun contratto, le parti non possono ritenersi vincolate al raggiungimento del risultato da esse rispettivamente perseguito, ma sono unicamente tenute a non arrecare pregiudizio alla controparte. Eccezione a ciò è rappresentata dall’ipotesi di conclusione di contratto valido, ma svantaggioso: in questo caso si rende risarcibile l’interesse positivo corrispondente al c.d. “danno differenziale”, vale a dire alla differenza, in termini patrimoniali, tra l’utilità che si sarebbe ottenuta in caso di conclusione delle trattative secondo buona fede e l’utilità effettivamente conseguita.  Ulteriori dubbi?  Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes  Clicca qui per leggere gli altri articoli SuperPartes  Foto di bertholdbrodersen da Pixabay © Riproduzione riservata

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    24 settembre 2024

    Le vendite nel settore finanziario

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    23 settembre 2024

    Procura con autorizzazione al rappresentante a...

    Il potere di rappresentanza è generalmente conferito mediante procura al rappresentante dal rappresentato nell’interesse di quest’ultimo. Tuttavia, non si esclude che esso possa essere consapevolmente conferito anche nell’interesse del rappresentante o di terzi (c.d. procurator in rem suam): ciò avviene, ad esempio, nel caso in cui il debitore incarichi i creditori o alcuni di essi di liquidare tutti o parte dei suoi beni e di ripartire tra i creditori medesimi il ricavato in soddisfacimento dei loro crediti. In tale caso, il compimento del negozio rappresentativo soddisfa contemporaneamente gli interessi di rappresentato e di rappresentante, interessi che si dimostrano tra loro convergenti. Potrebbe, al contrario, accadere che il rappresentante sia portatore di interessi propri o di terzi incompatibili con quelli del rappresentato, e che, quindi, si verifichi un conflitto di interessi. Un tipico caso di conflitto di interessi è il c.d. “contratto con se stesso”, un negozio giuridico bilaterale in cui le due dichiarazioni di volontà, necessarie per la sua conclusione, provengono da un unico soggetto che riassume in sé le posizioni di entrambe le parti, agendo in base a titoli diversi e come portatore di due opposti interessi. Detta figura ricorre in due casi: autocontratto: il rappresentante conclude il contratto in proprio (ad esempio, un rappresentante del venditore che acquista per sé la merce che il venditore intende alienare);doppia rappresentanza: il rappresentante di una parte conclude il contratto con se stesso in qualità di rappresentante di un terzo (un procuratore che rappresenta al tempo stesso sia il compratore sia il venditore). Poiché nel contratto con se stesso i ruoli delle parti sono recitati da un unico soggetto, la legge sanziona con l’annullabilità l’atto compiuto, a meno che non ricorrano talune condizioni legittimanti tali da escludere, in concreto, il conflitto di interessi. La presunzione di conflitto di interessi può essere vinta dimostrando: che il rappresentato abbia specificatamente autorizzato il rappresentante;che il contenuto del contratto sia stato preventivamente determinato dal rappresentato in guisa da escludere la possibilità di conflitto. Sebbene le due condizioni siano alternative, si ritiene che l'autorizzazione data dal rappresentato al rappresentante a concludere il contratto con sé stesso possa considerarsi idonea ad escludere la possibilità di conflitto di interessi - e, quindi, l'annullabilità del contratto - solo allorquando sia accompagnata da una determinazione degli elementi negoziali sufficienti ad assicurare la tutela del rappresentato medesimo. La validità del contratto è legata, dunque, alla indicazione nella procura dei requisiti minimi negoziali in virtù dei quali il rappresentante può contrarre con se stesso perché, diversamente, l’interesse perseguito finirebbe per essere quello del rappresentante e non più quello del rappresentato. Al rappresentato è riconosciuta, ad ogni modo, la possibilità di domandare l’annullamento del contratto – in considerazione del pericolo che il rappresentante persegua piuttosto il proprio interesse o quello dell’altro soggetto rappresentato – nel termine prescrizionale di cinque anni dalla data di conclusione del contratto. Per l’annullamento del contratto è sufficiente che il rappresentato si limiti a dimostrare la semplice possibilità di danno, non avendo rilevanza che l’atto compiuto sia per lui vantaggioso o svantaggioso e non essendo necessario che egli provi di aver subito un concreto pregiudizio. Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes  Clicca qui per leggere gli altri articoli SuperPartes  Foto di StockSnap da Pixabay © Riproduzione riservata  

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    19 settembre 2024

    Procura e incapacità sopravvenuta del mandante

    La rappresentanza è il potere di un soggetto (il rappresentante) di compiere atti giuridici in nome e per conto di un altro soggetto (il rappresentato). Il potere di rappresentanza può essere conferito dalla legge (come avviene, ad esempio, nel caso di rappresentanza dei soggetti minori, assunta dai genitori), ovvero dall’interessato (c.d. rappresentanza volontaria).  In quest’ultima tipologia, il titolo costitutivo del relativo potere è rappresentato dalla procura: essa è il negozio giuridico unilaterale (per la sua costituzione è sufficiente, infatti, la sola volontà del rappresentato) tramite il quale si attribuisce ad un soggetto il potere di agire in rappresentanza del conferente per la realizzazione di tutti gli atti relativi alla gestione dei suoi interessi patrimoniali (procura c.d. generale), o di singoli atti espressamente previsti (procura c.d. speciale). In ogni caso, ai fini della validità degli atti giuridici compiuti dal rappresentante, è sufficiente che quest’ultimo abbia la capacità di intendere e di volere (c.d. capacità naturale), mentre è richiesta la capacità legale del rappresentato, producendosi gli effetti nella sua sfera giuridica e imponendosi su di lui l’esigenza di controllo dell’attività del rappresentante, che un soggetto incapace non potrebbe adeguatamente operare. Nel caso, dunque, di un soggetto legalmente incapace (un soggetto che, quindi, non possa validamente disporre della propria sfera giuridico-patrimoniale) l’unico istituto al quale si può ricorrere è la rappresentanza legale. Ma cosa accade se l’incapacità del rappresentato sopraggiunge al rilascio della procura? Il sopraggiungere dell’incapacità può invalidare la procura. Qualora, infatti, all’incapacità segua un procedimento di interdizione, inabilitazione o amministrazione di sostegno che porti alla nomina giudiziale di un tutore, un curatore o un amministratore di sostegno, la procura soccombe con l’apertura della tutela. La sopravvenuta incapacità del mandante rappresenta, dunque, una delle cause di estinzione della procura, che, pur non espressamente disciplinate dalla legge, si rifanno a quelle previste per il mandato. Sebbene, di regola, sottostante alla procura ci sia un contratto di mandato, quest’ultimo si distingue dalla prima perché il mandato è, appunto, un contratto, mentre la procura è un atto di rappresentanza. Ciò significa che, nel caso del mandato, esiste un accordo bilaterale tra le parti, che può prevedere obblighi anche per il mandante (ad esempio, il pagamento di un corrispettivo), mentre nella procura il focus è sulla concessione di poteri rappresentativi da parte del conferente al procuratore, senza che ciò implichi necessariamente un accordo bilaterale sui servizi resi.  Le cause di estinzione del mandato, dunque, sono: la revoca da parte del mandante;la rinunzia del mandatario;la scadenza del termine;l’estinzione del rapporto di gestione;la morte o la sopravvenuta incapacità del mandante o del mandatario. La morte o la sopravvenuta incapacità del mandante, tuttavia, non sempre determinano l’estinzione del mandato: quest’ultimo conserva una sua ultrattività qualora il patrimonio del mandante o la buona riuscita dell’affare siano pregiudicati dal ritardo, essendo in tal caso il mandatario tenuto a garantire la continuità dell’incarico. Ulteriore eccezione è rappresentata dalla disciplina del mandato che ha per oggetto il compimento di atti relativi all’esercizio di un’impresa: tale mandato non si estingue, in contemplazione delle obiettive esigenze dell’impresa, se l’esercizio dell’impresa è continuato e salvo il diritto di recesso delle parti o degli eredi. La legge specifica, inoltre, che sono validi nei confronti del mandante o dei suoi eredi, non subendone il mandatario gli effetti, gli atti compiuti dal mandatario nel periodo di tempo compreso tra l’estinzione del mandato ed il momento in cui è giunto a conoscenza della causa estintiva. Desideri informazioni più specifiche?  Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes  Clicca qui per leggere gli altri articoli SuperPartes  Foto di aymane jdidi da Pixabay © Riproduzione riservata

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    17 settembre 2024

    La tutela dei legittimari: azione di riduzione e...

    A favore del coniuge, dei figli e, in mancanza di questi ultimi, degli ascendenti, la legge riserva una quota di eredità, la c.d. legittima. Attraverso tale istituto si pone un limite alla piena facoltà di disporre del testatore, riconoscendo ai soggetti summenzionati (cc. dd. legittimari) il diritto di succedere al de cuius, nei limiti di una certa quota del suo asse ereditario, a prescindere dalla volontà di quest’ultimo. In caso di attribuzioni lesive dei diritti dei legittimari, è previsto in loro favore e contro i beneficiari del testamento e i donatari il rimedio costituito dall’azione di riduzione, la quale mira ad ottenere una pronuncia dell’autorità giudiziaria recante riduzione, in tutto o in parte, dell’attribuzione fatta dal defunto sino alla misura necessaria alla reintegra del diritto del legittimario leso. Per poter stabilire se il testatore abbia leso i diritti spettanti a qualcuno dei legittimari, occorre calcolare l’entità del suo patrimonio all’epoca dell’apertura della successione. Il procedimento di calcolo può essere diviso in tre fasi: si calcola il valore dei beni che appartenevano al defunto all’epoca dell’apertura della successione (relictum); dalla somma che ne risulta si detraggono i debiti facenti capo al de cuius;la fase della “riunione fittizia”: al risultato ottenuto, si aggiungono i beni di cui il testatore abbia eventualmente disposto in vita a titolo di donazione, secondo il loro valore attualizzato alla data di apertura della successione.  Sull’asse determinato all’esito dei conteggi si calcola la quota di cui il testatore poteva disporre. Se da tali calcoli risulta che le disposizioni testamentarie o le donazioni eccedono la quota di cui il testatore poteva disporre, ciascun legittimario può agire per la riduzione entro dieci anni dalla accettazione dell’eredità da parte del legittimario. L’azione di riduzione opera nel modo seguente: sono colpite per prime le disposizioni testamentarie (istituzioni di eredi e di legati), che vengono diminuite proporzionalmente, salvo che il testatore abbia diversamente disposto in previsione dell’esperimento dell’azione di riduzione;se la riduzione delle disposizioni testamentarie non è sufficiente ad integrare la legittima, si procede alla riduzione delle donazioni, cominciando dall’ultima in ordine di tempo e risalendo via via a quelle anteriori. Cosa accade una volta accertata la lesione della legittima? La sentenza di accoglimento dell’azione di riduzione non rappresenta per il legittimario un titolo traslativo del bene oggetto della disposizione testamentaria o della liberalità. Affinché egli consegua il bene cui ha diritto, dovrà agire contro il possessore sine causa per ottenerne la restituzione. Quest’ultimo potrebbe essere sia l’onorato testamentario o il donatario assoggettati a riduzione, sia un terzo avente causa. nel primo caso, la legge prevede che i beni immobili o beni mobili registrati restituiti in conseguenza della riduzione sono liberi da ogni peso od ipoteca di cui il legatario o il donatario possa averli gravati (c.d. effetto purgativo), salvo che la riduzione sia stata domandata dopo venti anni dalla trascrizione della donazione (in tal caso il legittimario leso ha un mero diritto di credito verso il donatario, pari al minor valore dei beni che egli ha in restituzione) e purché la domanda sia stata proposta entro dieci anni dall’apertura della successione;nel secondo caso, è possibile ottenere la restituzione dal terzo avente causa, ma solo a determinate condizioni: il bene oggetto dell’attribuzione ridotta deve essere stato alienato dal donatario, dal legatario od erede;il donatario, il legatario o l’erede devono essere stati preventivamente e infruttuosamente escussi dal legittimario;non devono essere trascorsi più di vent’anni dalla trascrizione della donazione (se l’oggetto è un bene immobile);l’azione deve proporsi secondo l’ordine cronologico delle alienazioni, cominciando dall’ultima.  Il terzo acquirente può liberarsi dall’obbligo di restituire le cose donate pagando l’equivalente in denaro.  Il terzo acquirente del donatario (e il terzo creditore ipotecario o titolare del peso gravante sull’immobile), è, dunque, nei limiti suddetti, al riparo da pretese dei legittimari del donante, salvo che questi ultimi non si avvalgano dell’istituto dell’opposizione alla donazione. L’effetto dell’opposizione è che il termine ventennale oltre il quale non è possibile chiedere la restituzione del bene al terzo acquirente (ovvero non si verifica l’effetto purgativo dei pesi e delle ipoteche) rimane sospeso; anche l’opposizione è soggetta ad un’efficacia temporanea (venti anni), salva la possibilità di rinnovazione.  Se hai qualche dubbio, non esitare a contattare Professionisti SuperPartes  Clicca qui per leggere gli altri articoli SuperPartes  Foto di Werner Heiber da Pixabay © Riproduzione riservata

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    16 settembre 2024

    Illegittimità costituzionale degli articoli...

    Corte Costituzionale, sentenza n. 148 del 2024.  La Corte costituzionale con sentenza n. 148 del 2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare - oltre al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo - anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto». Inoltre, in via consequenziale, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter del codice civile, che, introdotto dalla legge n. 76 del 2016 (cosiddetta legge Cirinnà), riconosceva al convivente di fatto una tutela significativamente più ridotta. Le Sezioni unite civili della Corte di cassazione avevano sollevato questioni di legittimità costituzionale della disciplina dell’impresa familiare - in riferimento, in particolare, agli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione - nella parte in cui il convivente more uxorio non era incluso nel novero dei «familiari». La Corte costituzionale ha accolto le questioni rilevando che, in una società profondamente mutata, vi è stata una convergente evoluzione sia della normativa nazionale, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto. La Corte sottolinea come, quando si tratta di diritti fondamentali, questi devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni. Tale è il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione; diritto che, nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale tutela, versando anche il convivente di fatto, come il coniuge, nella stessa situazione in cui la prestazione lavorativa deve essere protetta, rischiando altrimenti di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito. La Corte – nel sottolineare che la tutela del lavoro è strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare – ha ritenuto, quindi, irragionevole la mancata inclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare. All’ampliamento della tutela apprestata dall’art. 230-bis del codice civile al convivente di fatto è conseguita, come anticipato, l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter del codice civile, che – nell’attribuire allo stesso una tutela ridotta, non comprensiva del riconoscimento del lavoro nella famiglia, del diritto al mantenimento, nonché dei diritti partecipativi nella gestione dell’impresa familiare – comporta un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione. Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes  Clicca qui per leggere gli altri articoli SuperPartes  Foto di Gerd Altmann da Pixabay © Riproduzione riservata

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    16 settembre 2024

    La diversificazione finanziaria

    "Perché mettere tutti i tuoi soldi in un'unica banca? Se acquisti prodotti da diverse banche, stai già diversificando". Quante volte vi è capito di incorrere in questa frase?Attenzione a non incorrere nell'errore di investire negli stessi principi causando un'inefficienza fiscale. Clicca sul video per saperne di più.

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    13 settembre 2024

    Patto di famiglia: liquidazione in favore del...

    Cassazione, ordinanza 16 luglio 2024, n. 19627, sez. V. Può ribadirsi che: il patto di famiglia di cui agli artt. 768-bis e ss. c.c. è assoggettato all’imposta sulle donazioni sia per quanto concerne il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie, operata dall’imprenditore in favore del discendente beneficiario, sia per quanto riguarda la liquidazione della somma corrispondente alla quota di riserva, calcolata sul valore dei beni trasferiti, effettuata dal beneficiario in favore dei legittimari non assegnatari; in materia di disciplina fiscale del patto di famiglia, alla liquidazione operata dal beneficiario del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie in favore del legittimario non assegnatario, ai sensi dell’art. 768-quater c.c., è applicabile il disposto dell’art. 58, comma 1, D.Lgs. n. 346 del 1990, intendendosi tale liquidazione, ai soli fini impositivi, donazione del disponente in favore del legittimario non assegnatario, con conseguente attribuzione dell’aliquota e della franchigia previste con riferimento al corrispondente rapporto di parentela o di coniugio; l’esenzione prevista dall’art. 3, comma 4-ter, D.Lgs. n. 346 del 1990, si applica al patto di famiglia solo con riguardo al trasferimento dell’azienda e delle partecipazioni societarie in favore del discendente beneficiario, non anche alle liquidazioni operate da quest’ultimo in favore degli altri legittimari (v. sentenza n. 29506/2020, confermata con l’ordinanza n. 19561/2022, le cui argomentazioni il Collegio pienamente condivide). In virtù dell’approdo interpretativo cui è giunta da ultimo la giurisprudenza di legittimità, deve pertanto ritenersi che, nel quadro complessivo della disciplina dell’imposta sulle successioni e donazioni, gli oneri posti a carico del beneficiario dell’attribuzione a favore di altri soggetti individualmente determinati, rilevano, ai fini fiscali, come attribuzioni provenienti, rispettivamente, dal de cuius o dal donante, in tal modo applicando l’imposta prendendo come riferimento l’effettivo passaggio di ricchezza che, nei confronti dell’erede/legatario e del donatario, è dunque ridimensionato, a causa dell’adempimento dell’onere, nella stessa misura in cui determina un arricchimento in favore del terzo beneficiario, e che l’agevolazione prevista dall’art. 3, comma 4-ter, cit. riguardi esclusivamente la donazione dell’azienda o delle partecipazioni sociali e non le c.d. “attribuzioni compensative”. Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes  Clicca qui per leggere gli altri articoli SuperPartes  Foto di Gerd Altmann da Pixabay © Riproduzione riservata

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02 ottobre 2024

Vedi il sesto incontro delle dirette: Obiettivo Finanza Consapevole!

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