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    30 dicembre 2016

    Il giudice deve motivare il "maggior valore"...

    Se l'Agenzia delle Entrate chiede il pagamento di imposte maggiori in relazione a una compravendita, basandosi sul dato contenuto in una perizia di parte effettuata dallo stesso contribuente, il giudice deve spiegare le ragioni per cui considera preferibile questo dato piuttosto che il prezzo, diverso e inferiore, indicato nell'atto di mutuo. La decisione ha preso le mosse da un ricorso promosso nei confronti di una sentenza della Commissione Tributaria Regionale, confermativa della precedente sentenza, che aveva ritenuto più veritiero il valore emergente dalla perizia del perito, piuttosto che quello contenuto nel contratto di mutuo. Proprio in base al valore stimato dal perito, infatti, l'Agenzia delle Entrate aveva rettificato le imposte sui redditi e l'IVA e, dunque, chiesto al contribuente di versare le imposte omesse in relazione al maggior valore del bene acquistato dall'impresa. La Corte di Cassazione[1] ha sottolineato come, in casi simili, il giudice possa sì ritenere più attendibile, nel senso di più verosimile, un diverso valore rispetto a quello contenuto nell'atto di mutuo, tuttavia, in tal caso, deve fornire adeguata motivazione in relazione alle ragioni che l'abbiano spinto a considerare preferibile quel dato, pena l'insufficiente motivazione della decisione. In particolare, dalla decisione non emergeva se il giudice avesse, oppure no, attribuito valore di presunzione legale al "valore normale", previsto da norme non applicabili ratione temporis, oppure se si fosse avvalso di una presunzione semplice corroborata da ulteriori elementi presuntivi. Nel caso di specie, inoltre, il valore stimato dal perito appariva quasi il doppio rispetto a quello emergente dagli altri documenti di causa, considerati irrilevanti dal giudice di appello. La plusvalenza da cessione di immobili, secondo la Corte, deve essere verificata rispetto al prezzo effettivo di cessione dell'immobile e non in base ad altri dati. Soprattutto ove si consideri che nel caso di specie, la perizia era stata svolta per una finalità  completamente diversa, quale la valutazione dell'immobile ai fini dell'iscrizione dell'ipoteca susseguente alla concessione del mutuo da parte della banca. La Corte evidenza, infine, come ciò sia confermato anche dall'abrogazione del riferimento al "valore normale" ad opera della Legge 88/09 ai fini delle rettifiche per il maggior valore dei beni, per incompatibilità  con il regime dell'IVA, poi estesa a tutte le imposte dirette. Ciò ha comportato il ritorno alla disciplina previgente ante 2006 e la soppressione della "presunzione legale (ovviamente relativa) di corrispondenza del corrispettivo effettivo al valore normale del bene, con la conseguenza che tutto è tornato ad essere rimesso alla valutazione del giudice, il quale può, in generale, desumere l'esistenza di attività  non dichiarate "anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti"". [1] Corte di Cassazione, sentenza n. 26279 del 20 dicembre 2016.

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    30 dicembre 2016

    La scissione non puಠessere oggetto di...

    La scissione societaria non può essere oggetto di azione revocatoria secondo il Tribunale di Roma, sezione fallimentare, ordinanza del 7 novembre 2016, dal momento che quest'ultima sarebbe incompatibile con le garanzie e la disciplina della scissione societaria, ma ancora a monte, mancherebbe un atto traslativo che possa giustificarla. L'azione revocatoria, disciplinata dall'art. 2901 c.c., nota anche come azione pauliana, è un'azione disposta dall'ordinamento a favore dei creditori, con la quale, al sussistere di determinate condizioni, quest'ultimi possono domandare che siano dichiarati inefficaci nei loro confronti gli atti di disposizione del patrimonio, compiuti dal debitore in loro pregiudizio. Tuttavia condicio sine qua non per la sua esperibilità  è che vi sia un atto dispositivo del patrimonio che, ancor prima che oneroso o gratuito, deve essere traslativo. Quindi, la questione, come sottolineato anche dal Tribunale, è proprio quella di determinare se la scissione societaria possa qualificarsi come atto traslativo o meno. Il Codice civile definisce, all'art. 2506 c.c., la scissione, totale o parziale, come quell'operazione con cui una società  assegna il proprio patrimonio a più società , preesistenti o di nuova costituzione. Che non si tratti di un vero e proprio atto traslativo di cespiti aziendali, ma semplicemente di una riallocazione degli asset, sembra emergere anche dal raffronto con la precedente formulazione dell'articolo sulle forme di scissione ante riforma. Mentre oggi, infatti, l'art. 2506 c.c. parla di "assegnazione", il precedente art. 2504 septies c.c. parlava, al contrario, di "trasferimento del patrimonio". Secondo il Tribunale, pertanto, la scissione societaria, lungi dal rappresentare un atto traslativo, sarebbe, al contrario, un'operazione a formazione progressiva volta ad ottenere una nuova articolazione dell'ente nella prospettiva della continuità  patrimoniale e non un fenomeno successorio, dal momento che con essa si realizza solamente una riorganizzazione delle strutture societarie, che non vengono estinte. I cespiti patrimoniali vengono semplicemente riallocati in maniera diversa, attraverso la modifica dello statuto societario. Che si tratti di una mera riorganizzazione è confermato anche dall'art. 2506 comma 3 c.c., che espressamente prevede che la società  scissa possa decidere se attuare il proprio scioglimento oppure continuare la propria attività . Alla luce di tutte queste considerazioni emerge come, in assenza di un atto traslativo revocabile, venga meno la possibilità  per i creditori di azionare l'azione revocatoria, in relazione all'operazione di scissione che essi ritengano, in qualche maniera, lesiva della loro posizione creditoria. I creditori già  esistenti prima della scissione non sono, tuttavia, privi di tutela. Possono innanzitutto, ai sensi dell'art. 2503 c.c., opporsi all'operazione entro il termine di legge e, in ogni caso, l'art. 2506 quater c.c. prevede che, dopo la scissione, le società  coinvolte nella scissione siano solidalmente responsabili, nei limiti del patrimonio netto loro assegnato o rimasto, dei debiti della società  scissa che siano rimasti insoddisfatti.

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    29 dicembre 2016

    È legittima l'iscrizione nel registro delle...

    È stata confermata la possibilità  di iscrizione nel Registro delle Imprese di una società  semplice di mero godimento, avente ad oggetto l'acquisto e l'amministrazione di beni immobili. Ad esprimersi in tal senso è stato il Tribunale di Roma[1], ufficio del Registro delle Imprese, a seguito della richiesta di cancellazione della società  in quanto priva di qualunque attività  commerciale. Le ragioni si fondano principalmente sui vari interventi del legislatore fiscale, succedutesi negli ultimi anni, che, in vario modo, hanno previsto agevolazioni per la trasformazione di società  (solo formalmente) commerciali in società  semplici di mero godimento. A fronte dell'ammissibilità  della trasformazione, per coerenza del sistema legislativo, deve considerarsi conseguentemente ammissibile anche la costituzione ex novo di società  di tal tipo e, dunque, la loro iscrizione nella sezione speciale del Registro delle Imprese. Il Tribunale di Roma non ha considerato, infatti, condivisibile quell'orientamento restrittivo per cui le norme tributarie, avendo finalità  solo fiscale e quindi di natura eccezionale e transitoria, con finalità  di emersione di imponibile fiscale e di contrasto all'uso elusivo dello schema societario, non inciderebbero in alcun modo sul sistema civilistico che, al contrario, non prevede tale possibilità . La legge tributaria è pur sempre una legge ordinaria, per cui non si può non sottolineare la necessità  di ricondurre ad ordine il sistema, notando come, ormai, lo stesso concetto di società  si sia venuto a modificare nel corso degli anni, a seguito dell'intervento legislativo, allontanandosi sempre di più dal modello delineato dall'art. 2247 c.c. Seppur necessario un intervento legislativo di coordinamento, dal momento che il legislatore è intervenuto solamente in ambito fiscale (per le trasformazioni) senza adeguare il dettato normativo degli artt. 2247 e 2248 c.c., sarebbe comunque contraddittorio ammettere la trasformazione delle società  commerciali in società  semplici a scopo di godimento e non, viceversa, la costituzione ex novo di tale tipologia di società . Per tutte queste considerazioni, pertanto, il Tribunale di Roma ne ha ammesso l'iscrizione, in virtù di un'interpretazione sistematica che, anzichè accentuare il contrasto tra legge fiscale e legge civile, addiviene a una lettura più razionale ed armonica delle due discipline. Se d'altronde la legge fiscale e la legge civile sono equiordinate, per il principio cronologico, è, in questo caso, quella fiscale a dover prevalere [1] Tribunale di Roma, Ufficio del Giudice del registro delle imprese tenuto dalla Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Roma, provvedimento dell'8 novembre 2016.

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    28 dicembre 2016

    La cassazione ammette la delega generale e...

    La Corte di Cassazione, sez. Tributaria[1], ha affermato l'ammissibilità  di una clausola, contenuta nello statuto di una società  a responsabilità  limitata ante riforma, che prevedeva la facoltà  del Consiglio di Amministrazione di delegare le proprie attribuzioni ai singoli consiglieri delegati, con poteri disgiunti. Più precisamente, la clausola in questione attribuiva ai consiglieri delegati, con firma libera e disgiunta, i poteri di gestione per il compimento di tutti gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, spettanti al Consiglio di amministrazione, senza limitazioni o esclusioni. Si trattava, di fatto, di una delega generale e disgiunta che, così strutturata, faceva nascere qualche dubbio di compatibilità  con quanto previsto dal Codice civile, in relazione all'amministrazione della s.r.l. L'art. 2475 c.c. prevede, infatti, che, quando l'amministrazione della società  è affidata a più persone, queste costituiscano il Consiglio di Amministrazione. La Corte di Cassazione ha, però, concluso per la compatibilità  di una siffatta clausola con la normativa in questione, dal momento che quest'ultima va interpretata, in ogni caso, non come norma imperativa, ma come norma suppletiva rispetto alle eventuali diverse disposizioni previste nell'atto costitutivo. Pertanto, solo in mancanza di una diversa disposizione contenuta nell'atto costitutivo, si applicherà  la disciplina generale prevista dall'art. 2475 c.c., che, a ben vedere, impone un obbligo di collegialità  esclusivamente nelle materie previste nell'ultimo comma, ovvero per la redazione del bilancio, per i progetti di fusione e scissione e per le decisioni di aumento del capitale ai sensi dell'art. 2481 c.c. Al di fuori di queste ipotesi rimane la possibilità , dunque, di derogare alla disciplina prevista nel Codice civile. A conferma di ciò, la Corte di Cassazione volge lo sguardo anche all'art. 2381 comma 2 c.c., che prevede la possibilità  per il Consiglio di amministrazione, se lo statuto o l'assemblea lo consentono, di delegare le proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo composto da alcuni dei suoi componenti, o anche solo ad uno o più dei suoi componenti. D'altronde una simile organizzazione può rilevarsi utile anche da un punto di vista di efficienza aziendale e, anche qualora vi fosse una clausola che preveda la possibilità  per il CdA di delegare le proprie attribuzioni ai singoli consiglieri, anche disgiuntamente, ciò non implicherebbe, di per sè, un'automatica esclusione del potere concorrente di gestione, dal momento che rimangono, in ogni caso, in capo all'organo consiliare poteri di intervento diretto, ed in particolare il potere di avocazione delle attribuzioni delegate e il potere di revoca della delega conferita. A ciò si aggiunge, inoltre, il potere di richiedere informazioni e valutare l'attività  degli amministratori delegati. Tutti poteri che la legge espressamente riconosce come sia preventivi, sia concomitanti, sia successivi. [1] Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza n. 25085 del 7 dicembre 2016.

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    24 dicembre 2016

    Cosa succede se il terreno donato diventa...

    La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20041 del 6 ottobre 2016, ha affrontato una interessante questione in relazione alla collazione per imputazione. In particolare può accadere che un soggetto doni ad un altro un terreno agricolo, che, con il passare del tempo, diventi edificabile, aumentando il proprio valore in maniera anche esponenziale. In questi casi, alla morte del donante, occorre chiedersi quale sia il valore da considerare, ai fini della collazione. Ciò è ancor più complesso nel caso in cui, medio tempore, il donatario abbia alienato il terreno. Quando, infatti, si apre una successione, chi ha già  precedentemente ricevuto per donazione è obbligato a procedere alla collazione, per ovvie ragioni di parità  di trattamento tra i coeredi, dal momento che la donazione, in qualche modo, può essere considerata come una sorta di anticipazione sull'eredità . La collazione, per espressa previsione dell'art. 746 c.c., può avvenire o in natura o per imputazione. In altre parole, il donatario può scegliere se conferire il bene in natura o imputarne il valore alla propria porzione di eredità . E' evidente come, nel caso in cui il bene sia intanto stato alienato, non rimanga che procedere alla collazione per imputazione, imputando cioè il valore di quel bene alla propria quota, dal momento che esso non è più nella disponibilità  del donatario. Qui nascono però le problematiche in relazione al quantum da imputare. Se il bene al momento della donazione aveva un certo valore, poi aumentato nettamente, occorre chiedersi quale dei due valori si debba considerare. Viene in soccorso l'art. 747 c.c. che espressamente prevede che la collazione per imputazione debba essere fatta avendo riguardo al valore dell'immobile al momento dell'apertura della successione. La legge sul punto è molto chiara e non lascia spazio a possibili diverse interpretazioni: il momento per calcolare il valore del bene è quello dell'apertura della successione e nessun altro momento precedente (quello della donazione o quello dell'eventuale alienazione). Nel caso analizzato dalla Corte, ad esempio, il terreno oggetto di donazione, essendo intanto divenuto edificabile, aveva visto aumentare il proprio valore passando addirittura da Lire 15.000.000 a 108.000 Euro al momento dell'apertura della successione. Tuttavia il donatario aveva alienato il bene quando il suo valore era ancora quello di terreno agricolo e pertanto non aveva in alcun modo beneficiato di quell'aumento di valore dovuto alla modificazione della destinazione urbanistica in terreno edificabile. Ciononostante essendo la lettera della norma molto chiara, la Corte sottolinea come il donatario sia libero di alienare in qualsiasi momento, prima della collazione, il bene ricevuto, tuttavia in tal caso lo fa a proprio rischio. In altre parole, il valore del bene va, come prevede la legge, calcolato al momento dell'apertura della successione, a prescindere dal fatto che il terreno sia stato o meno intanto alienato. Ragionare in termini diversi, secondo la Cassazione, condurrebbe all'"inaccettabile conseguenza per cui, a fronte di un medesimo fatto (il mutamento della destinazione urbanistica del fondo), la collazione avrebbe ad oggetto il valore di mercato del bene, nel caso in cui questo sia rimasto nella disponibilità  del donatario, e il valore del bene al netto dell'incremento determinato dalla sopraggiunta vocazione edificatoria del fondo, nel caso in cui questo sia stato alienato". Pertanto il valore del bene va sempre calcolato al momento dell'apertura della successione, a prescindere da eventuali vicende negoziali che possono essersi intanto compiute, come l'eventuale vendita dello stesso a terzi. Sul punto non può giovare al donatario nemmeno la disciplina prevista per le migliorie. Gli artt. 748 e 749 c.c. prevedono, infatti, che, in ogni caso, si devono dedurre a favore del donatario le migliorie apportate al fondo nei limiti del loro valore al momento dell'apertura della successione. Inoltre, nel caso in cui l'immobile sia stato alienato dal donatario, i miglioramenti (e/o i deterioramenti) fatti dall'acquirente devono essere anch'essi computati. Ma la diversa destinazione urbanistica di un terreno equivale a miglioramento? La Corte di Cassazione opta per una soluzione negativa in tal senso. In particolare, si possono considerare miglioramenti rimborsabili, ai fini della collazione, quelli che dipendono dal donatario, ovvero fatti per sua iniziativa, a sue cure e a sue spese. Il cambio di destinazione urbanistica, da terreno agricolo a terreno edificabile, non può certo essere in tal senso considerato un miglioramento rimborsabile al donatario. L'evento non dipende da lui, ma da fattori esterni ed in particolare amministrativi. Pertanto, traendo le fila dall'analisi compiuta sul punto dalla Corte, si può quindi agevolmente concludere che, in un caso come questo, il valore del terreno debba essere stimato, ai fini della collazione, tenendo conto del suo valore al momento della successione, a prescindere dal fatto che esso sia stato intanto alienato e che il donatario non abbia quindi potuto giovare dell'incremento economico dovuto a un eventuale cambio di destinazione urbanistica che, tra l'altro, non dipendendo da iniziative proprie del donatario, non può nemmeno essere considerato un miglioramento rimborsabile ai sensi degli artt. 748 e 749 c.c

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    23 dicembre 2016

    La disciplina delle menzioni urbanistiche non si...

    In base alla legge in materia edilizia, alcuni atti sono nulli e non possono essere stipulati in assenza delle necessarie menzioni urbanistiche. In particolare la legge prevede che gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione sia iniziata dopo una certa data, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi del titolo urbanistico in virtù del quale sono stati costruiti. Qualora ciò avvenga, rimane pur sempre la possibilità , nel caso in cui la mancata indicazione in atto degli estremi non sia dipesa dalla insussistenza stessa del provvedimento autorizzatorio, di poter confermare tali atti, anche ad opera di una sola delle parti mediante atto successivo, redatto nella stessa forma del precedente, che contenga la menzione omessa. Se queste sono le coordinate legislative in tema di menzioni urbanistiche necessarie ai fini della validità  dell'atto, quello che occorre capire è se tale obbligo valga anche nel caso di scioglimento della comunione ereditaria. Sul punto è intervenuta una recente sentenza di Cassazione[1], che ha analizzato i rapporti tra la divisione ereditaria e, appunto, la normativa all'epoca vigente in materia urbanistica prevista dall'art. 17 Legge 47/85, il quale comminava la nullità  in caso di assenza della menzione dei titoli urbanistici necessari. La questione va risolta volgendo lo sguardo alla natura giuridica che si voglia riconoscere alla divisione ereditaria, se di atto inter vivos o mortis causa. Qualora infatti si optasse per la qualificazione della stessa in termini di atto inter vivos, non vi sarebbero riscontri letterali per poter escludere la divisione ereditaria dall'ambito di applicazione della nullità  sancita dall'art. 17 Legge 47/85. Tuttavia la Corte di Cassazione ha optato per la seconda opzione ermeneutica, ovvero per la qualificazione della divisione ereditaria in termini di atto mortis causa, pur precisando tuttavia che la disciplina applicabile al caso portato alla sua attenzione sarebbe stato l'art. 40 e non già  l'art. 17 della Legge 47/85, in ragione dell'epoca della sua costruzione. Ma in disparte l'aspetto prettamente normativo della disposizione applicabile, quello che qui preme sottolineare è il principio espresso dalla Corte, consistente nella considerazione per cui nelle ipotesi di nullità  sancite dal legislatore per assenza delle necessarie menzioni urbanistiche non rientra la fattispecie negoziale della divisione ereditaria. In particolare, afferma la Corte che restano esclusi non solo tutti gli atti mortis causa, ma anche "("¦) quelli non autonomi rispetto ad essi tra i quali si deve ritenere compresa anche la divisione ereditaria, quale atto conclusivo della vicenda successoria". Le ragioni giuridico-argomentative per cui gli Ermellini pervengono a tale conclusione, quindi, si fondano su una interpretazione letterale e sistematica della legge, che spinge a ritenere che la divisione ereditaria non sia uno di quegli atti assoggettati alla sanzione della nullità  per assenza delle menzioni urbanistiche previste dalla legge. Il riferimento effettuato dalla legge allo "scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o a loro parti" deve, infatti, ritenersi limitato solamente agli atti tra vivi. La divisione ereditaria, pertanto, una volta qualificata come negozio mortis causa non può più quindi esservi ricompresa. [1] Corte di Cassazione, sentenza n. 20041 del 6 ottobre 2016.

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    23 dicembre 2016

    Problematiche in materia di donazioni indirette:...

    La recente sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Liguria, n. 575 del 21 marzo 2016, consente di analizzare tre significative questioni, che investono tutte, trasversalmente, il tema della donazione indiretta. La vicenda sottesa ha preso le mosse dal ricorso di un soggetto avverso un avviso di liquidazione e relative sanzioni, con cui l'Agenzia delle Entrate aveva provveduto a recuperare l'omessa imposta sulle donazioni relativa a un bonifico effettuato in suo favore. In particolare il ricorrente sottolineava come, essendo la somma destinata all'acquisto di un immobile scontante l'imposta di registro, essa non avrebbe dovuto essere assoggettata all'imposta sulle donazioni e che, in ogni caso, anche volendola considerare una donazione indiretta, essendo stata effettuata da un soggetto con residenza all'estero ed essendo stati i soldi prelevati da un conto estero, avrebbe, almeno, dovuto scontare l'imposta di registro in misura fissa e non proporzionale. Inoltre lamentava la mancata applicazione delle aliquote agevolate, in quanto la donazione era stata posta in essere da due soggetti dello stesso sesso unite in un rapporto di unione domestica, riconosciuto dal diritto svizzero. La Commissione Tributaria Provinciale di Imperia, tuttavia, aveva respinto il ricorso, sottolineando come nell'atto di compravendita non fosse evidenziato il collegamento negoziale tra la compravendita dell'immobile e la provvista di denaro effettuata mediante bonifico e sul presupposto che il denaro risultasse esistente nel territorio italiano sotto forma di disponibilità  nel conto corrente. A ciò si aggiunga, inoltre, che la Commissione Provinciale ha ritenuto non riconosciuta l'unione domestica tra persone dello stesso sesso, così come presente nel diritto svizzero. Donazione indiretta e imposta sulle donazioni. Per quanto attiene alla prima problematica, quella delle imposte sulla donazione, occorre partire dal dato normativo, che è ben noto, ma che si riporta per comodità  espositiva. Quando viene posta in essere una donazione indiretta al fine di porre in essere un altro negozio (la compravendita in questo caso), l'art. 4 bis del D. Lgs. 346/90 prevede che "ferma restando l'applicazione dell'imposta anche alle liberalità  indirette risultanti da atti soggetti a registrazione, l'imposta non si applica nei casi di donazioni o di altre liberalità  collegate ad atti concernenti il trasferimento o la costituzione di diritti immobiliari ovvero il trasferimento di aziende, qualora per l'atto sia prevista l'applicazione dell'imposta di registro, in misura proporzionale, o dell'imposta sul valore aggiunto". Se questo è il dato normativo, la Commissione Regionale ha rigettato il motivo di appello, dal momento che nell'atto di compravendita non vi era traccia del collegamento negoziale tra la provvista di denaro e la compravendita. In altre parole, per rientrare nell'ambito di applicazione del suddetto art. 4 bis, ovvero per poter beneficiare dell'esenzione dell'imposta sulla donazione, ciò che serve è che il trasferimento di denaro risulti finalizzato all'acquisto dell'immobile, ovvero che risulti il collegamento negoziale tra la donazione e il successivo negozio, che sconta l'imposta di registro in misura proporzionale o l'imposta sul valore aggiunto. Donazione indiretta e territorialità . Per quanto attiene, poi, alla questione territoriale della pretesa impositiva del fisco italiano, occorre anche qui prendere le mosse dal dato normativo. L'art. 2 del D. Lgs 346/90 prevede che "l'imposta (sulle donazioni) è dovuta in relazione a tutti i beni e diritti trasferiti, ancorchè esistenti all'estero. Se alla data dell'apertura della successione o a quella della donazione il defunto o il donante non era residente nello Stato, l'imposta è dovuta limitatamente ai beni e ai diritti ivi esistenti". L'art. 55 comma 1 bis prevede, poi, che "sono soggetti a registrazione in termine fisso anche gli atti aventi ad oggetto donazioni, dirette o indirette, formati all'estero nei confronti di beneficiari residenti nello Stato. Dall'imposta sulle donazioni determinata a norma del presente titolo si detraggono le imposte pagate all'estero in dipendenza della stessa donazione ed in relazione ai beni ivi esistenti, salva l'applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni". La Commissione Regionale sottolinea come la disciplina contenuta nell'art. 55 comma 1 bis non abbia inteso derogare alla regola contenuta nell'art. 2 e, pertanto, l'imposta rimane dovuta in misura proporzionale. In altre parole, per semplificare, la pretesa impositiva dello Stato viene meno solo quando il donante abbia la residenza all'estero e quando anche i beni donati si trovino all'estero. Ordunque, visto che dubbi non possono essercene in relazione a un soggetto che abbia effettivamente la residenza all'estero, se così risulta essere, quello che occorre verificare è se i beni possano o meno considerarsi siti all'estero e a quali condizioni ciò si verifichi, soprattutto nel caso in cui si tratti di un bonifico bancario. La Commissione Regionale, in accordo con quanto già  sostenuto dall'Agenzia delle Entrate, ha ritenuto sussistenti i presupposti per poter applicare l'imposta sulle donazioni dal momento che ha considerato "esistente" il bene donato in Italia. In particolare, ha ritenuto che, anche se la disposizione, che ha trasferito il denaro, si è originata in territorio estero, il beneficio della donazione si è concretizzato in territorio italiano, sub specie di disponibilità  di denaro nel conto corrente. In altre parole, la donazione può dirsi perfezionata solo nel momento e nel luogo in cui il donatario abbia avuto effettiva disponibilità  della somma donata, condizione che, nel caso di specie, è avvenuta, dunque, in Italia e che, pertanto, giustifica la pretesa impositiva dello Stato italiano. Donazione indiretta e unioni civili. Per quanto attiene a quest'ultimo punto, il ricorrente lamentava la violazione normativa in tema di famiglia della Carta Europea dei Diritti umani e delle Libertà  fondamentali, in quanto legato da un rapporto affettivo verso l'altro soggetto. Come noto, la legge riconosce l'applicazione di aliquote agevolate nel caso in cui la donazione avvenga tra parenti fino al quarto grado. Pertanto il fatto che donante e donatario fossero legati da un rapporto affettivo stabile e legalmente riconosciuto da uno stato straniero dovrebbe essere sufficiente per far scattare l'applicazione delle aliquote agevolate, pena appunto la violazione delle norme in tema di famiglia previste anche dalla normativa europea e dalla CEDU. Preme sottolineare che la sentenza esaminata è stata pronunciata prima della legge sulle Unioni civili, tuttavia già  in questa sede, la Commissione Regionale ha ritenuto applicabili le aliquote agevolate anche nel caso di unione domestica tra soggetti dello stesso sesso. In particolare, come affermato anche dalla Corte di Cassazione in altra sede, chi abbia contratto all'estero un matrimonio o comunque un'unione legalmente riconosciuta ha diritto anche nello Stato italiano a vedersi riconosciuto lo status di "familiare" e pertanto, nel caso di specie, a vedersi riconosciute le aliquote agevolate, che la legge concede, appunto, fino ai parenti di quarto grado.

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    21 dicembre 2016

    Donazione diretta o indiretta?

    Quando si parla di "donazione" si tende a immaginare un'unica tipologia di atto negoziale. Invece il nostro Codice Civile conosce varie forme di donazione. Qui si cercherà  di analizzare la principale distinzione che si usa fare in tema di donazione, ovvero la summa divisio tra donazioni dirette e donazioni indirette, al fine di evidenziare quali sono le principali differenze. La donazione diretta è disciplinata dall'art. 769 c.c. e consiste in un contratto con cui una parte, per spirito di liberalità , arricchisce l'altra. Già  all'interno di questa prima categoria si distingue, poi, ulteriormente, a seconda che questo arricchimento, e correlato impoverimento del donante, si realizzi mediante la disposizione di un diritto o l'assunzione di un'obbligazione (in questo caso si tratta di una donazione obbligatoria). Caratteristica fondamentale della donazione diretta è che essa richiede la forma dell'atto pubblico a pena di nullità . Lo stesso risultato pratico può essere, però, raggiunto dalle parti anche mediante una donazione indiretta. Quest'ultima consiste in una liberalità  attuata, anzichè con lo strumento tipico previsto dall'art. 769 c.c., mediante un altro negozio che comunque sortisca lo stesso effetto, ovvero l'arricchimento del beneficiario e il corrispettivo impoverimento del donante. Gli strumenti tipici per raggiungere questo fine sono i più disparati: dalla compravendita, all'intestazione di un conto corrente contenente denaro o ancora alla remissione di un debito. Si tratta, in buona sostanza, di tutti i contratti tipici previsti dal Codice civile, che possano in qualche modo costituire uno strumento utile per raggiungere l'ulteriore fine di liberalità . Queste donazioni hanno la particolarità  che non richiedono l'atto pubblico, ma la forma richiesta dal contratto di cui si servono. Ciò è facilmente ricavabile dal fatto che l'art. 809 c.c., che si occupa degli altri "atti di liberalità ", non richiama espressamente l'art. 782 c.c., che disciplina, appunto, la forma richiesta per la donazione diretta. Al contrario la restante disciplina prevista in generale per le donazioni si applica anche alle donazioni indirette. In particolare, per espressa previsione legislativa, sono anch'esse soggette alle regole previste per la revocazione per causa di ingratitudine (art. 801 c.c.), la sopravvenienza di figli (art. 803 c.c.), nonchè la riduzione delle donazioni per lesione della quota dei legittimari. L'art. 737 c.c. sottopone, poi, a collazione non solo le donazioni dirette, ma anche quelle indirette, con l'eccezione delle spese e delle liberalità  di cui all'art. 742 c.c. Inoltre, anche se non espressamente previsto dalla legge, opinione comune ritiene applicabili alle donazioni indirette anche tutte le norme che attengono all'obbligo degli alimenti (art. 437 c.c.), al divieto di donazione di beni futuri (art. 771 c.c.), all'incapacità  a donare (artt. 776 e 777 c.c.), all'incapacità  a ricevere per donazione (art. 779 c.c.), all'errore sul motivo e al motivo illecito (artt. 787 e 788 c.c.), nonchè infine all'azione revocatoria ex 2901 c.c. Una parte della dottrina distingue, poi, ulteriormente, tra donazioni formali e informali. Infatti può anche accadere che una parte arricchisca l'altra mediante un'attività  materiale o un comportamento omissivo, non sussumibili in un negozio tipico previsto dal nostro ordinamento. Anche in tali casi, però, si compiono gli effetti previsti dall'art. 769 c.c. per la donazione, ed in particolare, l'arricchimento del donatario e l'impoverimento del donante per spirito di liberalità . Si tratterebbe cioè di donazioni informali, ovvero donazioni senza la dovuta forma delle donazioni dirette e senza neppure la forma di altro negozio asservito alla finalità  di liberalità . A prescindere che si voglia aderire alla tripartizione donazioni dirette, indirette e informali, o alla bipartizione donazioni dirette o indirette, quello che preme, in questa sede, è sottolineare che, a prescindere dalla forma richiesta, la disciplina applicabile rimane la stessa, grazie all'equiparazione effettuata dall'art. 809 c.c. Il legislatore, sostanzialmente, ha preferito optare per un criterio sostanziale e non formale: quello che conta è il risultato raggiunto, ovvero l'arricchimento e l'impoverimento per spirito di liberalità . Questo si riflette anche in ambito fiscale. La giurisprudenza tributaria ha, a più riprese, sottolineato come siano esigibili le imposte sulla donazione anche nel caso di donazioni che non rivestano la forma di donazione diretta ma siano, al contrario, donazioni indirette (e/o informali). Non importa, infatti, se la donazione abbia o meno la forma della donazione diretta, ovvero l'atto pubblico. Ciò che conta, al contrario, è che vi sia stato un trasferimento di un diritto o della titolarità  di un bene per scopo di liberalità , presupposto in presenza del quale l'amministrazione finanziaria fonda la propria pretesa impositiva[1]. [1] Corte di Cassazione, sentenza n. 634 del 18 gennaio 2016.

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