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    28 luglio 2017

    Corte di Cassazione: al conferimento di beni...

    Corte di Cassazione, sentenza n. 3562 del 10 febbraio 2017 La Corte di Cassazione, in questa importante sentenza, ha colto l'occasione per chiarire definitivamente la portata dell'art. 20 D.P.R. 131/1986 in termini di norma "interpretativa" e non antielusiva, che impone una qualificazione oggettiva degli atti secondo la loro "causa concreta" e ciò anche a prescindere dalla qualificazione formale ad essi attribuiti dalle parti. Nel caso di specie, in particolare, in presenza di una causa unitaria che lega i singoli atti e di circostanze fattuali che depongono in tal senso, il conferimento di un'azienda in società  e la cessione delle quote della conferita possono integrare una cessione di azienda, con conseguente applicazione dell'imposta di registro in misura proporzionale. Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes  Il fatto La vicenda prende le mosse da un avviso di liquidazione di imposta di registro notificato dall'Agenzie delle Entrate, avverso il quale la contribuente proponeva ricorso. In particolare l'Agenzia delle Entrate contestava l'omessa applicazione dell'imposta di registro ad alcune operazioni di conferimento di azienda compiute dalla società  attraverso cessione di partecipazioni societarie. Le ragioni giuridiche La Corte di Cassazione, nell'accogliere il ricorso, ha sottolineato come l'art. 20 D.P.R. 131/86 consideri elemento preminente la causa reale dell'operazione, motivo per cui il conferimento di un'azienda in società  e la cessione delle quote della conferita possono integrare una cessione di azienda qualora le circostanze fattuali esterne all'atto depongano in tal senso; e tale circostanza non è smentita nemmeno dall'alterità  soggettiva tra cessionario dell'azienda e cessionario delle quote o dal fatto che l'operazione sia effettivamente genuina. L'intento elusivo non rientra, infatti, nella fattispecie normativa dell'art. 20 D.P.R. 131/1986, dal momento che quest'ultimo concerne l'oggettiva portata effettuale dei negozi e non contiene una disposizione antielusiva in senso stretto, come quella ad esempio contenuta nell'art. 37 bis D.P.R. 600/1973 - all'epoca dei fatti applicabile e poi sostituito dall'art. 10 bis della Legge 212/2000 -, ma semplicemente una regola interpretativa. L'art. 20 D.P.R. 131/1986, rubricato "interpretazione degli atti" prevede, infatti, che l'imposta di registro sia applicata secondo l'intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, riconoscendo in tal modo prevalenza alla causa effettiva dell'atto rispetto a quella cartolare. La Corte di Cassazione, pertanto, alla luce di tutte queste considerazioni, non ha ritenuto di aderire alla diversa interpretazione "atomistica" dell'operazione negoziale, sostenuta anche da controparte, ricordando come ormai da lungo tempo la giurisprudenza abbia aderito alla tesi della teoria in concreto che impone di considerare l'operazione nel suo complesso, non potendo la dicotomia "effetti giuridici" ed "effetti economici" del negozio giustificarsi se non nella prospettiva di una visione dell'atto isolato e della causa tipica. Clicca qui per leggere gli altri articoli SuperPartes

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    26 luglio 2017

    No all'usucapione se il passaggio è previsto per...

    Corte di Cassazione, Sezione II, sentenza n. 15843 del 26 giugno 2017 Affinché possa costituirsi servitù per usucapione occorre, oltre al requisito dell'apparenza, che non si ricada in una delle ipotesi previste dall'art. 843 c.c. in cui il proprietario di un fondo è obbligato per legge a permettere l'accesso e il passaggio sul suo fondo. Tali ipotesi, infatti, rappresentano obbligazioni propter rem e pertanto non possono determinare la costituzione di una servitù. Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes Il fatto La Corte d'Appello di Venezia, adita su impugnazione di sentenza del tribunale di Venezia, ha rigettato il gravame, ritenendo che l'eventuale pratica di accesso alla zona contatori, ricadente nella proprietà  del vicino, non avesse potuto dar luogo alla costituzione di servitù per usucapione ventennale poiché, da un lato, l'articolo 843 c.c. prevede che il proprietario debba consentire l'accesso del vicino alla cosa propria per manutenzione a titolo di obligatio propter rem e poiché, d'altro lato, la presunta servitù non avrebbe avuto il requisito dell'apparenza a causa del fatto che il cancello, cui veniva ricondotto tale requisito, era al servizio del fondo dominante e su esso giacente, nonché, infine, poiché il teste escusso aveva riferito che il vicino permetteva alle auto di fare inversione di marcia sulla sua proprietà  e che l'utilizzo era stato richiesto per iscritto. Le ragioni giuridiche La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso e dunque escludere l'avvenuta costituzione di servitù per usucapione ventennale, condivide principalmente i due argomenti sostenuti dalla Corte di Appello, ed in particolare da un lato che l'articolo 843 c.c. prevede che il proprietario debba consentire l'accesso del vicino alla cosa propria per manutenzione a titolo di obligatio propter rem e d'altro lato che la presunta servitù non avrebbe avuto il requisito dell'apparenza, necessario ai fini dell'usucapione. Per quanto attiene il primo argomento, ai sensi dell'art. 843 c.c., il proprietario deve permettere l'accesso e il passaggio nel suo fondo in una serie di ipotesi, ovvero quando ve ne sia necessità  al fine di costruire o riparare un muro o altra opera propria del vicino oppure comune. Se l'accesso cagiona un danno, è dovuta un'adeguata indennità . Il proprietario deve, inoltre, permettere l'accesso anche a chi voglia riprendere la cosa sua che vi si trovi accidentalmente o l'animale che vi si sia riparato sfuggendo alla custodia, potendo impedire l'accesso solo consegnando la cosa o l'animale. Tutte queste ipotesi costituiscono, secondo la Cassazione, ipotesi di obbligazioni propter rem e come tali non possono essere oggetto di usucapione. Per quanto attiene il secondo argomento, quello dell'apparenza, che la Cassazione affronta solo per completezza, rileva come, diversamente da quanto accaduto nel caso concreto, in materia di usucapione delle servitù, il necessario requisito dell'apparenza impone che le opere visibili e permanenti di cui all'articolo 1061 comma 2 c.c., quand'anche eccezionalmente si trovino sul fondo dominante, debbano comunque essere, come prescrive detta norma, "destinate al loro esercizio", cioè costituenti una situazione oggettiva di fatto di per sé rivelatrice dell'assoggettamento di un fondo ad un altro, dovendo quindi l'inequivoca destinazione dipendere dalle oggettive caratteristiche dell'opera e non già  dal modo in cui questa viene utilizzata. Clicca qui per leggere gli altri articoli SuperPartes

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    24 luglio 2017

    Quante volte posso godere del credito di imposta...

    Corte di Cassazione, sentenza n. 2072 del 3 febbraio 2016 Nella vita di tutti i giorni può accadere che un soggetto, che abbia acquistato un immobile avvalendosi dei benefici prima casa, sia costretto poi a rivenderlo per ragioni personali o familiari. Come noto, in tali ipotesi non decade dalle agevolazioni se riacquista un altro immobile non di lusso nel termine di un anno dalla vendita del precedente. Ma cosa succede se è costretto nuovamente a vendere il bene e riacquistarne un altro? Può il contribuente godere del credito d'imposta vantato in forza del primo acquisto anche più volte? Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes Il fatto La vicenda trae origine da un avviso di liquidazione dell'Agenzia delle Entrate Ufficio di Venezia, con cui si accertava che i contribuenti avevano indebitamente usufruito delle agevolazioni fiscali previste per l'acquisto della prima casa di cui al DPR 131/1986. In particolare, si contestava loro di aver portato in detrazione il credito di imposta usufruito per l'acquisto di un secondo immobile, successivo all'acquisto della prima casa, per compensare quanto dovuto all'erario in conseguenza di un terzo successivo acquisto di altro immobile sempre da destinare a propria abitazione, acquistato in seguito alla vendita del secondo immobile. Le ragioni giuridiche Nel ritenere infondato il ricorso dell'Agenzia delle Entrate, la Corte di Cassazione ha colto l'occasione per fare il punto in tema di agevolazioni prima casa nell'ipotesi di plurimi e successivi atti di alienazione e acquisto infrannuali con effettivo trasferimento della residenza negli immobili. D'altronde, nota la Corte, il legislatore non ha posto nessuna limitazione alla possibilità  di successive rivendite ai fini delle agevolazioni previste per l'acquisto della prima casa, consentendo all'acquirente di neutralizzare l'imposta assolta nella precedente operazione. Già  in passato la Corte di Cassazione aveva avuto modo di affermare che "il contribuente che, venduto l'immobile nei cinque anni dall'acquisto, abbia acquistato, entro un anno da tale alienazione, un altro immobile, procedendo poi alla sua vendita ed all'acquisto infrannuale di un ulteriore immobile, può mantenere l'agevolazione solo se fornisce la prova che l'acquisto sia seguito dalla effettiva realizzazione della destinazione ad abitazione propria degli immobili acquisiti nelle singole transazioni in virtù del concreto trasferimento della residenza anagrafica nell'unità  abitativa correlata". Questo significa, in altre parole, che il contribuente, qualora rivenda ed acquisti più volte nel rispetto delle condizioni previste dalla norma (immobile non di lusso, riacquisto entro un anno ed effettivo trasferimento della residenza), può godere del credito d'imposta vantato in forza del primo acquisto anche più volte fino a concorrenza dell'intera somma. D'altronde lo spirito della norma è proprio quello di incentivare l'acquisto della prima casa, riconoscendo al beneficiario delle agevolazioni di avvalersi più volte sempre del medesimo credito d'imposta, anche qualora quest'ultimo per motivi personali sia indotto nel tempo rivendere l'immobile acquistato e acquistarne un altro per ragioni personali o familiari. Clicca qui per leggere gli altri articoli SuperPartes

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    20 luglio 2017

    Cessione di cubatura: imposta di registro al 3%

    Comm. Trib. Reg. per il Piemonte, sentenza n. 721/31 dell'8 giugno 2016 Il negozio di cessione di cubatura sconta l'imposta di registro al 3%. E' quanto affermato dalla Commissione Tributaria Regionale per il Piemonte, che ha confermato la correttezza della liquidazione effettuata dal notaio rogante, ritenendo non condivisibile la diversa impostazione dell'Agenzia delle Entrate che avrebbe voluto, invece, assoggettare il negozio alla ben più alta aliquota dell'8% prevista per i trasferimenti immobiliari. Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes Il fatto La vicenda prende le mosse da un avviso di liquidazione, relativo all'imposta di registro, notificato dall'Agenzia delle Entrate nei confronti di un contribuente che aveva venduto il diritto di volumetria relativo ad un suo appezzamento di terreno. L'ufficio, nel controllare la regolarità  dell'autoliquidazione, rilevava un errore effettuato dal notaio rogante, ritenendo la cessione di cubatura assimilabile alla categoria dei diritti reali immobiliari e dunque da assoggettare alla stessa tassazione dei trasferimenti immobiliari, ossia all'aliquota dell'8% (art. l Tariffa Parte Prima allegata al DPR 131/86) e non a quella del 3% come invece effettuato dal notaio. Le ragioni giuridiche Secondo l'Agenzia delle Entrate la cessione di cubatura produrrebbe effetti analoghi a quelli propri del trasferimento di diritti reali immobiliari, dal momento che il proprietario dell'area perderebbe il diritto di costruire sulla medesima che verrebbe acquistato dal proprietario del fondo cui la cubatura è trasferita. Quindi, secondo questa ricostruzione, similmente ad un contratto di vendita immobiliare, andrebbero applicate le normali imposte proporzionali di registro, così come disposto dall'art. l della tariffa Parte Prima allegata al DPR 131/86, che generalmente sono dell'8% salvo i casi particolari di aliquota ridotta o maggiorata. Tuttavia, la Commissione Tributaria Regionale per il Piemonte, nel confermare la decisione dei giudici di primo grado, non ha ritenuto condivisibile questo orientamento, sottolineando come, al contrario, la cessione abbia ad oggetto "una entità  immateriale" il cui effetto traslativo è il risultato finale cui si perviene attraverso due atti distinti ma inscindibilmente collegati, uno di natura privatistica, concluso dai proprietari delle aree, con cui viene volontariamente limitata la possibilità  edificatoria di un fondo a favore dell'altro, e uno di natura pubblicistica, sub specie di provvedimento amministrativo, con cui viene autorizzata dal Comune la realizzazione sul terreno cessionario di un fabbricato, con una cubatura maggiore di quella spettante perché aumentata di quanta teorica volumetria si è spogliato l'altro fondo. Esclusa, quindi, la natura reale del bene trasferito, il proprietario di un fondo più che trasferire o costituire un diritto reale, impone a carico del fondo stesso ed a favore di un fondo confinante appartenente a diverso proprietario, un vincolo di destinazione, obbligandosi a non utilizzare l'area di sua proprietà  ai fini edificatori. Il Comune, poi, assegnando la cubatura dismessa a favore dell'area confinante, "prende atto" della diversa distribuzione dei volumi edificabili da un punto di vista urbanistico e reale. Da ciò deriva conseguentemente che, sotto il profilo fiscale, l'assimilazione della cubatura ai diritti reali è possibile. D'altronde la volumetria rappresenta un valore economico autonomo, in grado di staccarsi dalla proprietà  del suolo per formare oggetto di autonoma negoziazione tra i privati; si tratta di un bene in sé, proprio perché giuridicamente del tutto indipendente dalla realizzazione di un fabbricato futuro, edificato in forza di essa, che non può essere esercitato sull'immobile senza l'autorizzazione amministrativa che può ridurre o addirittura vanificare il diritto che, proprio per questo non può essere di natura reale. Clicca qui per leggere gli altri articoli SuperPartes

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    19 luglio 2017

    È ammissibile il preliminare di vendita di cosa...

    Tribunale di Milano, Sezione specializzata in materia di impresa, sentenza n. 5176 del 9 maggio 2017 Cosa cambia per il cittadino Il Tribunale di Milano si è espresso in senso positivo in ordine all'ammissibilità  del preliminare di vendita di cose altrui avente ad oggetto le quote di una s.r.l., non ritenendo condivisibile il diverso orientamento che ne negava l'ammissibilità , sul presupposto per cui la partecipazione in s.r.l. non sarebbe una "cosa" ma un fascio di diritti e come tale non suscettibile di formare oggetto di tale tipologia di contratto. Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes http://associazionesuperpartes.it/notai/ Il fatto Tizio aveva ha sottoscritto un contratto preliminare di compravendita avente ad oggetto il 15% del capitale sociale di una s.r.l., in cui i promittenti venditori dichiaravano che le quote erano di loro piena ed esclusiva proprietà . Successivamente, però, Tizio veniva a conoscenza che i promittenti venditori non erano proprietari delle suddette quote, ma ciascuno socio di altra società  a sua volta titolare di partecipazioni nella s.r.l. in questione. Alla luce di ciò, Tizio chiedeva la nullità  del contratto per impossibilità  dell'oggetto e la restituzione di quanto già  versato, nonché il risarcimento del danno ex 1338 c.c. nei confronti dei venditori ben consapevoli, a suo modo di vedere, del vizio del contratto. Le ragioni giuridiche Il Tribunale, dopo aver qualificato l'operazione come preliminare di vendita di cosa altrui, ne ha affermato l'ammissibilità , sostenendo che tale tipologia di contratto ben può avere ad oggetto quote sociali, come già  affermato in precedenza dallo stesso Tribunale di Milano, Sezione specializzata in materia di impresa. Non ha, infatti, ritenuto degna di pregio giuridico l'affermazione di parte attrice secondo cui "si può "vendere la cosa altrui", ma la partecipazione in una società  non sarebbe una "cosa" ma un fascio di diritti (non di natura reale) che conferisce uno status, quello di socio. La giurisprudenza maggioritaria, già  da tempo, ha, infatti, riconosciuto alla quota sociale natura di "bene immateriale equiparato ad un bene mobile non iscritto in pubblico registro", con la conseguente applicabilità  alla stessa del regime giuridico concernente i beni mobili e, in particolare, della disciplina delle situazioni soggettive reali. Tale impostazione è stata, peraltro, confermata dal legislatore della riforma del 2003, il quale da un lato ha modificando l'art. 2741 c.c., consentendo l'espropriazione della partecipazione in s.r.l. e dall'altro ha introdotto l'art. 2471 bis c.c., prevedendo espressamente che essa possa formare oggetto di pegno, usufrutto e sequestro. Alla luce di tutte queste considerazioni, quindi, il Tribunale di Milano ha concluso per escludere l'invocata nullità  per impossibilità dell'oggetto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1418 comma 2 c.c. e 1346 c.c., dovendosi invece ritenere che tale tipologia di contratto sia perfettamente ammissibile e valida sino ad eventuale risoluzione si sensi dell'art.1479 c.c.. Per leggere gli altri articoli SuperPartes clicca qui: http://associazionesuperpartes.it/extra/blog/

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    10 luglio 2017

    Incapacità del testatore: quando il testamento...

    Corte di Cassazione, Sezione II, sentenza n. 12691 del 19 maggio 2017 Cosa cambia per il cittadino Ai fini dell'annullamento di un testamento per incapacità  naturale è indispensabile l'accertamento di un'assenza assoluta della coscienza dei propri atti o della capacità  di autodeterminarsi a causa di un'infermità  transitoria o permanente, da appurarsi al momento della redazione dell'atto di ultima volontà . In caso contrario, stante anche l'irripetibilità  delle volontà  testamentarie del de cuius, il testamento dovrà  considerarsi validamente redatto. E ciò perché l'incapacità  naturale del testatore postula la sussistenza non già  di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà  psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la piena prova che, a cagione di una infermità  transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto risulti privo in modo assoluto della coscienza dei propri atti o della capacità  di autodeterminarsi. Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes http://associazionesuperpartes.it/notai/ Il fatto La questione attiene alla prova dell'incapacità  che deve colpire il testatore affinché possa procedersi all'annullamento del testamento. In particolare è stata impugnata una decisione della Corte di Appello di Genova che non aveva ravvisato sussistente un'incapacità  sufficiente in capo a una donna affetta da disturbo bipolare. Le ragioni giuridiche In tema di annullamento del testamento, l'incapacità  naturale del testatore postula l'esistenza non già  di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà  psichiche ed intellettive del de cuius, ma la prova che il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell'atto di ultima volontà , della coscienza dei propri atti o della capacità  di autodeterminarsi. In altre parole, deve ritenersi provata la sussistenza di un disturbo tale da alterare la coscienza, la memoria o il corso del pensiero del soggetto testatore al momento della stesura del testamento. Peraltro, poiché lo stato di capacità  costituisce la regola e quello di incapacità  l'eccezione, spetta a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità , salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità  totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo. Ai fini dell'accertamento, inoltre, il giudice del merito non può ignorare il contenuto del testamento medesimo e gli elementi di valutazione da esso desumibili in relazione alla serietà , normalità  e coerenza delle relative disposizioni, nonché ai sentimenti e ai fini che risultano averle ispirate. Alla luce di tutte queste considerazioni, dunque, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo di dover condividere il consolidato indirizzo, a cui risulta essersi conformata la Corte territoriale, che, con valutazione di merito adeguatamente motivata, ha escluso che potesse ritenersi provato che la testatrice, al momento della redazione del testamento, fosse priva delle capacità  cognitive e volitive necessarie per comprendere il contenuto e gli effetti dell'atto e, quindi, per formare una volontà  cosciente. Per leggere gli altri articoli SuperPartes clicca qui: http://associazionesuperpartes.it/extra/blog/

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    06 luglio 2017

    Preliminare di donazione: è valido?

    Corte di Cassazione, Sezione III, sentenza n. 14262 dell'8 giugno 2017 Cosa cambia per il cittadino La Corte di Cassazione ha fatto applicazione della teoria della causa in concreto in un'interessante, quanto complessa, vicenda negoziale intercorsa tra più parti e coinvolgente una donazione, una procura e un vitalizio. In disparte la peculiarità  del caso giunto all'attenzione degli Ermellini, ci che preme sottolineare è l'affermazione, da parte del Collegio, della nullità  di un eventuale preliminare di donazione. La Corte di Cassazione sembra dunque ribadire l'orientamento tradizionale che ha sempre ritenuto inammissibile il preliminare di donazione alla luce del fatto che "obbligarsi a donare" farebbe venir meno l'elemento essenziale dell'atto di liberalità  che è la spontaneità . Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes http://associazionesuperpartes.it/notai/ Il fatto Tizia ha intimato lo sfratto per morosità  alla società  Alfa s.r.l., conduttrice di un immobile destinato ad uso ufficio, lamentando il mancato pagamento dei canoni e chiedendo la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento. La società  convenuta, costituendosi, ha contestato l'esistenza di qualsiasi morosità , affermandosi al contrario lei creditrice di parte attrice. Di fondo a tutta la vicenda una scrittura privata, con cui si conveniva il trasferimento di un immobile, un vitalizio a favore della donante e una procura a gestire alcuni immobili. Le ragioni giuridiche La Corte di Cassazione ha evidenziato come il Tribunale avesse correttamente ricostruito la complessa vicenda ritenendo che la scrittura privata, pur formalmente definita come "preliminare", non contenesse obblighi alla stipula di contratti definitivi, assumendo con essa le parti, di converso, precise e reciproche obbligazioni di fare e di dare con effetti immediati. La corte di appello di Brescia, investita delle impugnazioni, aveva al contrario concluso che la scrittura privata andasse qualificata come contratto preliminare, non soltanto per la sua esplicita intitolazione, ma anche alla luce del comportamento successivo delle parti, volto all'attuazione degli impegni con essa assunti. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, ritenendo come l'interpretazione di tale scrittura adottata dalla Corte territoriale sia da ritenersi viziata sul piano logico-giuridico, nella parte in cui ne afferma la natura di contratto preliminare, senza considerare la decisiva circostanza della contestualità  temporale tanto della "scrittura preliminare" quanto dell'accordo vitalizio, del rilascio della procura e della donazione. Osserva il Collegio, infatti, che la cessione della proprietà  da parte di Tizia, non avrebbe potuto essere legittimamente qualificata "preliminare di donazione", pena la sua insanabile nullità , non essendo ammissibile il preliminare di donazione. Di qui la conseguenza, rettamente colta dal primo giudice, che, per il principio di conservazione degli atti giuridici, la suddetta scrittura privata, contenente una pluralità  di pattuizioni caratterizzate da un evidente vincolo di collegamento negoziale, "non poteva che ritenersi immediatamente dotata di efficacia, reale ed obbligatoria, con riferimento alle singole pattuizioni in essa contenuta, ed i successivi atti formali esclusivamente funzionali alla riproduzione in altra veste degli accordi già  raggiunti, della cui validità  ed efficace non par lecito dubitare". Lo scopo perseguito dalle parti, infatti, era quello di assicurare, da un lato, una rendita vitalizia a Tizia e dall'altro, consentire alla controparte collettiva l'amministrazione e il godimento degli utili dei beni in usufrutto alla prima con rinuncia di quest'ultima alla pretesa di percepire i canoni di locazione. Tra le varie circostanze fattuali a conferma di tale ricostruzione dei fatti, si rinviene anche quella per cui la società , dopo aver corrisposto i canoni di locazione per molti anni, abbia cessato di corrisponderli subito dopo l'accordo e Tizia non abbia provveduto per lungo periodo a richiederli. Per leggere gli altri articoli SuperPartes clicca qui: http://associazionesuperpartes.it/extra/blog/

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    05 luglio 2017

    Le novità della Legge di Stabilità: leasing...

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