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    29 novembre 2016

    Detrazione IRPEF posti auto: serve il bonifico?

    L'Agenzia delle Entrate[1] ha fatto il punto sulla detraibilità , in base all'art. 16 bis del TUIR, delle spese sostenute in relazione a un box auto, destinato a pertinenza di un immobile residenziale. In particolare la questione attiene alla possibilità  di beneficiare delle detrazioni IRPEF per le spese sostenute per l'acquisto del box auto, pagato, all'atto del rogito, con assegni bancari. L'Agenzia delle Entrate si è espressa in senso favorevole al contribuente, precisando tuttavia alcuni presupposti necessari per poter usufruire delle detrazioni previste dalla legge. Vediamo quali. Cosa si può detrarre? L'art. 16 bis del TUIR ("Detrazione delle spese per interventi di recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione energetica degli edifici") prevede che dall'imposta lorda si possa detrarre un importo pari al 36% delle spese documentate, fino a un massimo di 48.000 per unità  immobiliare. La Legge di stabilità  2016 ha prorogato poi l'innalzamento delle soglie anche per quest'anno al 50% e fino all'importo massimo di 96.000 euro. Per quanto attiene i box auto, la legge estende le detrazioni previste in materia anche agli interventi relativi alla realizzazione di autorimesse o posti auto pertinenziali ad immobili residenziali, nonchè all'acquisto di autorimesse e posti auto pertinenziali limitatamente ai costi di realizzo. Serve il bonifico? La normativa prevede che il pagamento delle spese detraibili debba essere effettuato tramite bonifico bancario, con indicazione espressa della causale, del codice fiscale del beneficiario della detrazione e della partita iva (o codice fiscale) del soggetto che riceve il pagamento. L'Agenzia delle entrate ha però affermato che, qualora le somme ricevute da parte dell'impresa che ha ceduto il box risultino nell'atto notarile, l'acquirente può egualmente usufruire delle detrazioni, a patto che il venditore rilasci, oltre alla certificazione circa il costo di realizzo del box, anche una dichiarazione sostitutiva di atto notorio con cui attesta che i corrispettivi pagati sono stati inclusi nella contabilità  aziendale ai fini della loro concorrenza alla corretta determinazione del reddito del percipiente. Dunque anche nel caso in cui il pagamento sia avvenuto con assegni bancari si può accedere alle detrazioni fiscali. Questo vale anche nel caso in cui il bonifico non sia stato correttamente compilato. Quando va effettuato il pagamento? In passato l'Agenzia ha sempre manifestato un orientamento restrittivo in ordine alle tempistiche necessarie per poter usufruire delle agevolazioni, ritenendo che le detrazioni potessero essere riconosciute solo per i pagamenti successivi al preliminare registrato o all'atto notarile, dai quali risultasse il vincolo pertinenziale tra il box auto e l'immobile residenziale. Oggi invece l'Agenzia delle Entrate afferma che il beneficio fiscale può essere riconosciuto anche per i pagamenti effettuati prima dell'atto notarile, anche in assenza di un contratto preliminare registrato. Ovviamente, però, il vincolo pertinenziale tra i due immobili deve risultare nel contratto di compravendita e comunque essere costituito prima della presentazione della dichiarazione dei redditi. Quali sono gli adempimenti necessari? Il contribuente, per poter accedere alle detrazioni, dovrà  presentare tutta la documentazione necessaria in tempo utile per la predisposizione della dichiarazione dei redditi a un professionista abilitato, o al CAF oppure, su richiesta, agli uffici dell'amministrazione finanziaria. [1] Circolare Agenzia delle Entrate, n. 43/E del 18 novembre 2016.

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    28 novembre 2016

    Legge "Dopo di noi": disabilità  grave e...

    È di questi giorni la firma del decreto attuativo, che fissa i requisiti per l'accesso al Fondo istituito dalla legge n. 112 del 22 giugno 2016 ("Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità  grave prive del sostegno familiare"), che era stata approvata in via definitiva lo scorso giugno. Le nuove disposizioni contenute nella legge n. 112/16, nota per tutti col nome "Dopo di noi", disciplinano un tema caro a molti, ovvero quello delle misure di assistenza, cura e protezione di soggetti con disabilità  grave[1] (non determinata dal naturale invecchiamento o da patologie connesse alla senilità ), dopo la morte dei genitori che li abbiano accuditi, ovvero le persone affette da disabilità  grave comunque prive di un adeguato sostegno familiare o in vista del venir meno dello stesso, attraverso la progressiva presa in carico della persona interessata già  durante l'esistenza in vita dei genitori. La legge è stata accolta con favore, data l'importanza e la delicatezza del tema. È la prima volta che in Italia si ha una disciplina organica, in tema di disabilità  grave, che si occupi del momento in cui viene a mancare l'apporto familiare. Tale normativa si aggiunge, ovviamente, a quella già  vigente in materia, per quanto attiene ai livelli essenziali di assistenza e altri interventi di sostegno. Scopo della nuova disciplina è quello di favorire il processo di deistituzionalizzazione e di supporto della domiciliarità  in abitazioni o gruppi-appartamento, al fine di impedire l'isolamento delle persone con disabilità , possibile oggi anche grazie all'ausilio delle nuove tecnologie. Appare fondamentale, infatti, preservare quanto più possibile l'autonomia dei soggetti coinvolti e garantire il loro benessere. Per queste ragioni la legge prevede tutta una serie di sgravi fiscali per incentivare le erogazioni da parte di soggetti privati, la stipula di polizze di assicurazione e la costituzione di trust, di vincoli di destinazione ex art. 2645 ter c.c. e di fondi speciali, composti da beni sottoposti a vincolo di destinazione e disciplinati con contratto di affidamento fiduciario anche a favore di organizzazioni non lucrative che operano prevalentemente nel settore della beneficienza (art. 1 L. n. 112/16). La legge mette, dunque, a disposizione dei privati, la facoltà  di scegliere una delle soluzioni previste dalla legge stessa, incentivandone l'utilizzo attraverso la predisposizione di vantaggi di natura soprattutto fiscale. Le agevolazioni previste sono molte. Viene innanzitutto innalzato l'importo fiscalmente detraibile delle spese sostenute per le polizze assicurative aventi ad oggetto il rischio morte finalizzate alla tutela delle persone con grave disabilità  (art. 5 L. n. 112/16). Ma ancora maggiori sono gli incentivi per quanto riguarda i beni e i diritti conferiti in trust, gravati da vincoli di destinazione ex 2645 ter c.c. ovvero destinati a fondi speciali (come previsti dalla stessa legge ai sensi dell'art. 3 comma 1). Tali atti sono, per espressa previsione legislativa, soggetti all'applicazione delle imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura fissa e i relativi atti di gestione sono esenti dall'imposta di bollo. Inoltre è prevista l'esenzione dall'imposta sulle successioni e donazioni per i beni o i diritti conferiti in trust ovvero gravati da vincoli ex 2645 ter c.c. o destinati a fondi speciali. La legge precisa che le esenzioni e le agevolazioni sono ammesse solo a condizione che tali atti perseguano come finalità  esclusiva l'inclusione sociale, la cura e l'assistenza delle persone in favore delle quali sono istituiti, finalità  che deve risultare espressamente menzionata, rispettivamente, nell'atto istitutivo del trust, nel contratto di affidamento fiduciario che regola i fondi speciali o nell'atto istitutivo del vincolo di destinazione. Tali atti devono inoltre essere stipulati per atto pubblico e rispettare tutta una serie di requisiti, di forma e di contenuto, indicati dalla stessa normativa, tra cui, ad esempio, l'indicazione in maniera chiara e univoca dei soggetti coinvolti e i rispettivi ruoli, la specificazione dei bisogni delle persone con disabilità , l'individuazione degli obblighi del trustee, del fiduciario e del gestore, con riguardo al progetto di vita e all'obbligo di rendicontazione, nonchè, infine, la durata e la destinazione del patrimonio residuo. Viene inoltre istituito un fondo (Fondo per l'assistenza di persone con disabilità  grave prive di sostegno familiare), il cui accesso è subordinato alla sussistenza dei requisiti individuati, proprio in questi giorni, con decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, di concerto con il Ministero dell'Economia e delle finanze e il Ministero della Salute. Il fondo è dotato di un cospicuo patrimonio (90 milioni di euro per il 2016), con cui si dovranno attuare programmi di residenzialità  innovativi, come ad esempio il co-housing e, in generale, realizzare progetti per la cura del benessere dei soggetti affetti da disabilità  grave privi del sostentamento familiare, così come indicato dalle finalità  delle nuove disposizioni. Al finanziamento dei programmi e all'attuazione degli interventi cui è destinato il fondo possono compartecipare le Regioni, gli Enti locali, gli Enti del terzo settore, nonchè altri soggetti di diritto privato (che abbiano una comprovata esperienza nel settore dell'assistenza a soggetti con disabilità ) e le famiglie che si associano. [1] Definizione ricavabile dall'art. 3 comma 3 della Legge n. 104 del 5 febbraio 1992.

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    25 novembre 2016

    lecita la trasformazione del tetto in terrazza ad...

    La Corte di Cassazione[1] è tornata sul tema delle modifiche del tetto di un immobile ad opera di un singolo condomino, affermando come debba ritenersi illecita la modifica, ad opera del proprietario dell'ultimo piano, del tetto in terrazza, nonostante la contraria volontà  espressa dall'assemblea condominiale. In particolare, il caso analizzato dalla Corte riguarda la costruzione di un'altana ad opera di un singolo condomino, con conseguente modificazione a proprio uso esclusivo del tetto, parte comune dell'edificio condominiale ai sensi dell'art. 1117 del Codice civile. La Corte di Cassazione afferma come tale modifica debba ritenersi illecita non potendo rientrare nell'ipotesi prevista dall'art. 1102 c.c.. In particolare l'art. 1102 c.c. prevede la possibilità , per ciascun condomino, di servirsi della cosa comune. Tuttavia precisa che ciò non deve alterare la destinazione della cosa e impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. In particolare il condomino può apportare, a proprie spese, le modifiche necessarie per il miglior godimento, ma non può estendere il suo diritto sulla cosa comune, in danno agli altri, se non provveda a compiere atti idonei a mutare il titolo del suo possesso (ad esempio acquistando il relativo diritto di proprietà  sul bene comune). Pertanto ciò che appare legittimo, secondo la Corte, alla luce del dettato dell'art. 1102 c.c., è l'utilizzazione della cosa comune da parte del singolo, anche con modalità  particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione, ma pur sempre nel rispetto delle concorrenti utilizzazioni, che possono essere attuali o anche solo potenziali, degli altri condomini. È ammesso anche l'uso più intenso della cosa comune da parte del singolo, purchè tuttavia, anche in tal caso, non venga alterato il rapporto di equilibrio tra tutti i comproprietari, dovendosi sempre tenere in considerazione anche l'uso potenziale che gli altri condomini possano farne. Nel caso di specie, tuttavia, la costruzione di un'altana (o altra struttura equivalente che abbia comunque l'effetto di trasformare parte del tetto in terrazza) non può essere considerata una modifica finalizzata solo al miglior godimento della cosa comune e come tale rientrante nella disciplina dell'art. 1102 c.c.. Ma al contrario una illegittima trasformazione di un bene comune ad uso esclusivo del singolo, che alterata l'originaria destinazione del bene, sottraendolo all'utilizzazione da parte degli altri, sia attuale sia futura, e a nulla rilevando, in tal senso, che la parte di tetto così sostituita continui a svolgere la funzione di copertura dell'immobile. La modifica unilateralmente posta in essere dal singolo condomino dell'ultimo piano rappresenta, quindi, "violazione del divieto stabilito dall'art. 1120 comma 2 cod. civ., essendo indubbio che gli altri condomini vengono privati delle potenzialità  di uso". [1] Cassazione, sentenza 15 novembre 2016, n. 23243, sez. II civile.

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    24 novembre 2016

    Lesione della legittima: qual è l'ordine per la...

    La Corte di Cassazione, con sentenza n. 4721 del 10 marzo 2016[1], ha fatto chiarezza sul tema della lesione della quota di legittima a danno di un erede legittimario, affermando che ai fini della reintegrazione della quota di legittima che si assume lesa, il giudice non può procedere alle riduzioni delle donazioni se prima non abbia provveduto a ridurre tutte le disposizioni testamentarie. Solo nel caso in cui ciò non sia ancora sufficiente a soddisfare il diritto del legittimario, allora potrà  procedere alla riduzione delle donazioni poste in essere dal de cuius, in base all'ordine cronologico dalla più recente alla più antica. Il caso riguardava un soggetto che, con testamento olografo, aveva lasciato i propri beni ai due figli e attribuito la metà  dell'usufrutto sugli stessi al coniuge superstite. Uno dei due figli aveva poi convenuto in giudizio il fratello chiedendo, previo accertamento della lesione della quota di legittima di sua spettanza, la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni effettuate in vita dal padre con conseguente reintegrazione nella sua quota di riserva. La Corte di Cassazione trae spunto dalla fattispecie in esame per fare il punto sulle modalità  con cui il giudice di merito deve procedere alla riduzione delle disposizioni lesive della quota di legittima in capo a un erede legittimario, in base alla disciplina ricavabile dal combinato disposto degli articoli 554, 555, 558 e 559 del Codice civile. Precisa inoltre, per quanto riguarda le modalità , che l'ordine, con cui deve operarsi la riduzione delle disposizioni lesive della quota di legittima, è tassativo e inderogabile. Per queste ragioni la sentenza appare interessante, soprattutto perchè fornisce una ricostruzione semplice ma allo stesso tempo sistematica ed esaustiva dell'ordine con cui si deve procedere alla riduzione, fino alla completa reintegrazione della quota di legittima lesa. Vediamo brevemente quali sono le coordinate offerte dalla Corte e che devono, quindi, essere seguite dal giudice di merito che si trovi ad affrontare un'analoga fattispecie. La Corte di Cassazione precisa innanzitutto come, ai fini della reintegrazione della quota di legittima, per prime devono essere ridotte le disposizioni testamentarie (art. 554 c.c.), in misura proporzionale e nei limiti di quanto sia necessario a soddisfare il diritto del legittimario (art. 558 c.c.). Non incide in nessun modo sull'ordine da rispettare il fatto che esse siano a titolo universale o particolare. Giova appena ricordare che il testatore può nominare erede una persona senza altra specificazione o, al contrario, individuare uno specifico bene di sua spettanza (institutio ex re certa), senza che ciò implichi necessariamente la costituzione di un legato a suo favore. In generale si può affermare che il testatore non può impedire in nessun modo la riduzione delle disposizioni testamentarie, potendo al più qualificare una di esse come "privilegiata". La qualificazione di una disposizione in termini di disposizione privilegiata implica però solamente che, in caso di lesione della quota di legittima in capo a un legittimario, essa potrà  essere ridotta solo a seguito delle altre, nel caso in cui la loro riduzione non sia stata sufficiente a reintegrare la quota di legittima lesa (art. 558 comma 2 c.c.). Dopo aver dettato le coordinate per la riduzione delle disposizioni testamentarie, la Corte di Cassazione affronta il tema della riduzione delle eventuali donazioni effettuate in vita dal de cuius, precisando che, in ogni caso, non si può procedere alla riduzione delle donazioni se non dopo aver effettuato la riduzione di tutte le disposizioni testamentarie, incluse anche le disposizioni privilegiate e solo nel caso in cui ciò non sia ancora stato sufficiente a ripristinare la quota di legittima lesa (art. 555 comma 2 c..c). In altre parole, quindi, esiste un ordine tassativo da rispettare. Prima occorrere procedere alla riduzione delle disposizioni testamentarie e solo successivamente si può procedere alla riduzione delle donazioni effettuate in vita dal donante, qualora (e solamente nel caso in cui) la riduzione delle disposizioni testamentarie non sia stata di per sè sufficiente a reintegrare completamente la quota di legittima lesa. Qualora si arrivi a dover ridurre anche le donazioni, la Corte sottolinea come anche in questo caso esista un ordine previsto dalla legge, e ciò a prescindere dal fatto che le donazioni siano dirette o indirette. Il criterio applicabile è infatti quello cronologico. Ciò implica che deve essere ridotta per prima l'ultima donazione, ovvero la più recente e, solo ove ciò non basti, si deve procedere alla riduzione della donazione antecedente e così via, procedendo dalla più recente all'anteriore, fino a che non si sia ristabilita interamente la quota di legittima lesa (art. 559 c.c.). [1] Corte di Cassazione, sentenza n. 4721 del 10 marzo 2016.

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    19 novembre 2016

    Nullità  atto di destinazione al convivente...

    Il giudice tavolare del Tribunale di Trieste, con decreto del 22 marzo 2016[1], ha affermato la nullità  per mancanza di causa, di un atto di destinazione ex 2645 ter c.c., con cui la disponente aveva destinato, a favore del convivente more uxorio, un immobile a residenza comune, già  oggetto di comodato tra le parti, parametrandolo alla vita del beneficiario e condizionandolo alla cessione irreversibile del rapporto di convivenza oppure all'alienazione della proprietà  dell'immobile. Il Tribunale argomenta tale decisione muovendo innanzitutto una critica a quanti ritengano che l'art. 2645 ter abbia introdotto una nuova figura negoziale, ritenendo più corretto identificare nella norma solo "l'individuazione di un nuovo effetto negoziale", da realizzarsi mediante l'utilizzo di altri e necessari schemi negoziali tipici o atipici. Opinando diversamente, ritiene il giudice, non sarebbe nemmeno possibile individuare la struttura di questa nuova figura negoziale, permanendo dubbi, che la norma non risolve, circa la sua qualificazione in termini di negozio unilaterale o bilaterale, ad effetti traslativi o obbligatori e circa la sua natura gratuita o onerosa. Da ciò deriva, essendo la segregazione patrimoniale solo l'effetto, la necessità  di individuare aliunde la causa meritevole di tutela del negozio. Infatti per quanto si possa intendere la causa di un negozio nel modo più ampio possibile, in applicazione della tesi della causa in concreto, l'invocata tutela della convivenza more uxorio e della segregazione (che come visto è solo l'effetto del negozio) non sono di per loro sufficienti a rappresentare da sole la causa del negozio. Nell'individuazione della causa, bisogna prestare attenzione a tenere ben distinti i motivi che possono aver spinto le parti a compiere il negozio da quello che è invece il vero e proprio profilo causale dell'atto stesso. A ciò si aggiunga che, nel caso in analisi, il Tribunale ha ritenuto effimeri anche i motivi che hanno spinto la disponente a compiere l'atto di destinazione e come tali non degni tutela, nonchè collegati in ultima analisi alla discrezionalità  della disponente stessa (che si era riservata la possibilità  di revocare il negozio in presenza di una serie di circostanze, quali la cessazione del rapporto di convivenza o la vendita dell'immobile a terzi). Così delineato l'intento della disponente è apparso al Tribunale più egoistico che altruistico, come invece espressamente richiesto dall'art. 2645 ter c.c., non spettando in caso di alienazione alcuna legittima aspettativa in capo al beneficiario e dunque nessuna obiettiva tutela. Da tutte queste considerazioni deriverebbe, come conseguenza, che il programma negoziale non persegue alcun interesse meritevole di tutela, diversamente da quanto richiesto dall'art. 2645 ter c.c. e dal rinvio che la norma fa all'art. 1322 c.c. secondo comma. Nel caso di specie, inoltre, il giudice ha gioco facile nel notare come il beneficiario sarebbe, alla luce degli atti di causa, addirittura già  più tutelato alla luce del contratto di comodato precedentemente stipulato con la disponente, piuttosto che alla luce del negozio di destinazione. Nel caso di vendita dell'immobile l'atto di destinazione, secondo le coordinate dettate dalla stessa beneficiaria, appare revocabile, mentre il contratto di comodato rimarrebbe invece in vita in quanto stipulato per consentire al convivente more uxorio di destinare l'immobile a propria residenza e senza vincolo di durata. [1] Tribunale di Trieste, Giud. Tavolare, decr. 22 marzo 2016.

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    18 novembre 2016

    Mutuo non pagato? La banca vende casa

    Il settore dei mutui è stato recentemente interessato da una importante riforma che ha modificato anche la materia dell'inadempimento del contratto di credito da parte del consumatore, anche se, ad oggi, visti i pochi giorni di vita delle nuove previsioni legislative, non appare ancora del tutto chiara la disciplina applicabile. In attesa dell'emanazione delle disposizioni di attuazione, pertanto, si possono fare solo alcune riflessioni preliminari e generali, partendo da quello che è il nuovo dettato normativo. L'art. 120 - quinquiesdecies del T.U.B bancario (D. Lgs. 385/93), così come riformato dal Decreto Mutui (D.Lgs. 72/16), prevede innanzitutto, ferma la disciplina prevista in caso di ritardati pagamenti ex art. 40 comma 2, l'obbligo in capo al finanziatore di adottare procedure per gestire i rapporti con i consumatori in difficoltà  con i pagamenti. Sul punto la Banca d'Italia è stata chiamata ad adottare le relative disposizioni di attuazione, con particolare riguardo agli obblighi informativi e di correttezza del finanziatore, nonchè ai casi di eventuale stato di bisogno o di particolare debolezza del consumatore. La nuova disposizione prosegue poi, al secondo comma, prevedendo espressamente che il finanziatore non possa in ogni caso imporre al consumatore oneri, derivanti dall'inadempimento, superiori a quelli necessari a compensare i costi sostenuti a causa dell'inadempimento stesso. I costi sostenuti a causa dell'inadempimento segnano, quindi, il limite ultimo degli oneri a cui il consumatore può essere assoggettato per via dell'inadempimento del contratto di credito. Ma è il comma terzo dell'art. 120 - quinquiesdecies ad aver attratto, per ora maggiormente, l'attenzione degli interpreti del settore, il quale recita che, fermo restando il divieto di patto commissorio, le parti possono tuttavia convenire, con clausola espressa, al momento della conclusione del contratto di credito, che, in caso di inadempimento del consumatore, la restituzione o il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale o dei proventi della vendita del medesimo bene comporta l'estinzione dell'intero debito a carico del consumatore derivante dal contratto di credito. La legge specifica che in tali ipotesi l'intero debito residuo a carico del consumatore derivante dal contratto di credito si deve considerare estinto, anche se la somma ricavata risultasse essere inferiore al debito residuo. Al contrario se il valore dell'immobile, come stimato dal perito, ovvero l'ammontare dei proventi della vendita dovessero essere superiori al debito residuo l'eccedenza dovrà  essere restituita. Per quanto attiene alla vendita dell'immobile la legge precisa, poi, che il finanziatore si deve adoperare con ogni diligenza per conseguire il miglior prezzo di realizzo possibile. Preme sottolineare, in prima analisi, l'importanza di tale punto della riforma. Come è noto, infatti, l'art. 2744 c.c. prevede un imperativo divieto di patto commissorio. Seppur qualche voce discordante, la nuova previsione legislativa non appare in contrasto con il divieto sancito dal Codice civile. Il fatto che un'eventuale eccedenza di valore venga restituita sicuramente è un elemento che depone in tal senso, potendo il nuovo istituto essere qualificato come un patto marciano che, anche se non disciplinato espressamente nel nostro ordinamento, è presente da tempo immemore e della cui ammissibilità  e coerenza con i principi dell'ordinamento italiano non si è mai dubitato. Meritevole, infatti, sembra essere la ratio a fondamento della previsione, che non appare essere quella di abuso della posizione debole del consumatore, ma quella di garantire una più rapida, ma comunque equa, escussione della garanzia immobiliare senza dover ricorrere alle lungaggini giudiziarie. A conferma di ciò, depone anche la restante disciplina prevista dall'art. 120 quinquiesdecies. In particolare viene espressamente previsto che il valore del bene immobile oggetto della garanzia debba essere stimato da un perito indipendente scelto dalle parti di comune accordo ovvero, in caso di mancato raggiungimento dell'accordo, nominato dal Presidente del Tribunale territorialmente competente con le modalità  di cui al terzo comma dell'articolo 696 c.p.c., con una perizia successiva all'inadempimento. Inoltre viene previsto che il finanziatore non possa, in ogni caso, condizionare la conclusione del contratto di credito alla sottoscrizione della clausola. Qualora, tuttavia, il consumatore decida di sottoscriverla, ha diritto ad essere assistito, a titolo gratuito, da un consulente al fine di valutarne la convenienza. In ogni caso una siffatta clausola non può essere pattuita in caso di surrogazione nel contratto di credito ai sensi dell'articolo 120-quater. Lo stesso articolo fornisce, poi, una chiave ermeneutica su cosa costituisca inadempimento, ritenendo necessario in tal senso il mancato pagamento di un ammontare equivalente a diciotto rate mensili, non costituendo, al contrario, inadempimento i ritardati pagamenti che consentono la risoluzione del contratto ai sensi dell'articolo 40, comma 2. A chiusura della disciplina sull'inadempimento del consumatore, il Decreto Mutui prevede, infine, che per tutte le ipotesi non incluse permane per il finanziatore la possibilità  di far ricorso all'espropriazione immobiliare, precisando che, se a seguito dell'escussione della garanzia residui un debito a carico del consumatore, il relativo obbligo di pagamento decorre dopo sei mesi dalla conclusione della procedura esecutiva. Se queste sono le coordinate offerte dal nuovo testo dell'art. 120 quinquiesdecies T.U.B., permangono alcuni dubbi circa talune previsioni in essa contenute. La legge ha rimesso al Ministero dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministero della giustizia, e sentita la Banca d'Italia, il compito di dettare le disposizioni di attuazione in ordine ad alcuni punti fondamentale della disciplina. Come già  sottolineato, in attesa dell'emanazione delle disposizioni attuative, si possono solo fare alcune considerazioni preliminari e generali, basate sul nuovo teso di legge, su quale sarà  la disciplina finale. Innanzitutto non appare chiaro quale sia la procedura da adottare per la vendita ma si può ragionevolmente ritenere, data la ratio di semplificazione della riforma, volta a offrire uno strumento di escussione stragiudiziale più semplice e veloce delle garanzie immobiliari, che le norme di attuazione disciplineranno le modalità  e le tempistiche di realizzo della vendita privata dell'immobile. Anche sullo stesso concetto di vendita privata, però, possono sorgere alcune perplessità , ed in particolare appare utile domandarsi se il finanziatore possa ricorrere alla delega al notaio per procedere alle aste telematiche notarili o ad altre procedure competitive di vendita. Alcuni dubbi sono stati sollevati anche in relazione al rapporto, concorrente o escludente, con il potere di risoluzione già  riconosciuto dalla stessa legge ai sensi dell'art. 40 comma 2 T.U.B. previsto nell'ipotesi di ritardato pagamento, che prevede come presupposto applicativo un ritardo nei pagamenti verificatosi almeno 7 volte anche non consecutive. Quel che è certo per ora sono i soggetti coinvolti: il debitore, il finanziatore e l'acquirente dell'immobile oggetto di garanzia. Ma occorrerà  anche tener conto di altri eventuali creditori. La normativa secondaria dovrà  anche occuparsi del ruolo del notaio ed eventualmente anche del giudice qualora si renda necessario il suo intervento in caso di contrasti nati tra creditore e debitore. Un altro dubbio può nascere sul potere residuo in capo al consumatore di procedere alla vendita dell'immobile in un momento successivo all'inadempimento, ovvero se possa procedere lui stesso alla vendita del bene e successivamente all'estinzione del debito o se, una volta convenuta con la banca la clausola di patto marciano, dopo l'inadempimento, gli sia preclusa definitivamente la possibilità  di procedere personalmente alla vendita. La questione più problematica, però, secondo i primi riscontri, attiene forse alla legittimazione alla vendita in capo al finanziatore. La legge prevede, infatti, solo la possibilità  di introdurre nel contratto di mutuo una clausola contenente la facoltà  di procedere alla vendita in caso di inadempimento, ma non accenna alle problematiche relative alla legittimazione. Le vie percorribili sono molteplici. Occorre capire se si possa prevedere un trasferimento sospensivamente condizionato all'inadempimento (come già  previsto per le imprese ex art. 48 bis T.U.B), oppure un mandato irrevocabile alla vendita. O ancora se sia consentita una vendita senza previo trasferimento della proprietà  dell'immobile al finanziatore o altra soluzione giuridica che comunque ponga il finanziatore nella condizione di poter vendere legittimamente il bene.

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    14 novembre 2016

    Società  di persone e nullità  della clausola...

    La Sesta Sezione della Cassazione[1] è recentemente tornata sul tema della clausola compromissoria presente nei patti sociali di una società  di persone, costituita prima dell'entrata in vigore del D. Lgs 5/03, ribadendo la nullità  di quella clausola che preveda, per le controversie tra soci o tra soci e società , la nomina dell'arbitro ad opera dei soci e, solo in caso di disaccordo, ad opera del Presidente del Tribunale. La Corte di Cassazione rileva come una siffatta clausola si ponga in contrasto con l'art. 34 comma II del D. Lgs. 5/03, immediatamente applicabile alle società  di persone, anche per quanto attiene alle clausole compromissorie stipulate precedentemente alla sua entrata in vigore. La clausola del tipo di quella analizzata dalla Corte prevede, infatti, il deferimento di tutte le controversie che insorgano tra i soci, o tra i soci e società  ad un arbitro amichevole, scelto di comune accordo tra le parti e, solo in caso di disaccordo, dal Presidente del Tribunale su istanza della parte più diligente. In tal modo viene attribuito alle stesse parti in via principale il potere di nomina, mentre il ricorso all'autorità  giudiziaria appare essere una facoltà  meramente subordinata "destinata ad operare soltanto nel caso in cui le parti non riescano a raggiungere un consenso sulla designazione". L'art. 34 del D. Lgs 5/03 prevede, invece, una disciplina differente. In particolare, dopo aver previsto la possibilità  per le società  (ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio ai sensi dell'art. 2325 bis c.c.) di inserire negli atti costitutivi una clausola che preveda la devoluzione a un arbitro delle controversie tra soci o tra soci e società , che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale, precisa tuttavia un requisito necessario della nomina. In particolare stabilisce che, a pena di nullità , il potere di designazione degli arbitri deve essere conferito a un soggetto terzo estraneo alla società  e, nel caso di mancato adempimento da parte di quest'ultimo, su richiesta delle parti, al Presidente del Tribunale del luogo in cui la società  ha sede legale. Ecco dunque che diversamente dalla clausola oggetto di giudizio, il potere non è rimesso in via principale alle parti e solo in via subordinata all'autorità  giudiziaria, ma, al contrario, già  in prima battuta a un soggetto estraneo alla società . Secondo la Corte, quindi, per espressa previsione della legge, dal contrasto del contenuto della clausola oggetto di giudizio e il precetto dettato dell'art. 34 comma II D. Lgs. 5/03 non può che derivare conseguentemente la nullità  della stessa clausola compromissoria. Non rileva, secondo la Corte, il fatto che tale clausola fosse precedente alla riforma che ha investito il settore societario. L'entrata in vigore dell'art. 34 comma II ha comportato, infatti, la nullità  sopravvenuta di tutte le clausole compromissorie contenute negli statuti di società , che non siano state oggetto di adeguamento entro i termini previsti dagli artt. 223 bis e 223 duodecies disp. att. trans. c.c., nella parte in cui attribuiscano il potere di nomina dell'arbitro alle parti e solo in via subordinata all'autorità  giudiziaria. La Corte di Cassazione afferma, infatti, di non condividere l'orientamento del "doppio binario", secondo cui vi sarebbe in tali ipotesi una conversione dell'arbitrato endosocietario in arbitrato di diritto comune, "dal momento che la nullità  comminata dall'art. 34 è volta a garantire il principio di ordine pubblico dell'imparzialità  della decisione". [1] Cassazione civile, Sezione Sesta, Ordinanza n. 21442 del 24 ottobre 2016.

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    12 novembre 2016

    Cosa succede se il consumatore non paga il mutuo?

    È di questi giorni l'entrata in vigore delle modifiche previste dal D. Lgs. 72/2016 (Decreto Mutui), che hanno inciso sulla disciplina del Testo Unico Bancario (D. Lgs 385/93) e del D. Lgs. 141/2010. Il Decreto Mutui ha riformato profondamente anche la disciplina prevista nell'ipotesi di inadempimento da parte del consumatore di un contratto di credito stipulato con un finanziatore o intermediario del credito. Lo scopo annunciato dal Decreto Mutui, che si pone sulla stessa linea del precedente D. Lgs. 59/2016, è quello di facilitare il recupero, da parte degli istituti di credito, delle somme non pagate, per ovviare alla situazione attuale in cui, nel caso di mancato pagamento, la via percorribile si è dimostrata spesso troppo lunga e non sempre fruttuosa. Può capitare infatti che, anche a seguito della vendita all'asta, dopo anni, la banca non riesca comunque a rientrare integralmente della somma finanziata. Ecco dunque che il legislatore, in attuazione della Direttiva 2014/17/UE (c.d. "Mortgage Credit Directive"), è intervenuto sulla materia, prevedendo la facoltà  per le banche e gli intermediatori finanziari di procedere più celermente a un'escussione stragiudiziale delle garanzie immobiliari. Tuttavia occorre sottolineare come il legislatore abbia innanzitutto voluto tutelare il consumatore e solo successivamente, qualora non sia possibile altrimenti, prevedere una procedura più veloce per l'escussione delle garanzie immobiliari. Il nuovo art. 120 quinquiesdecies del T.U.B. prevede, infatti, come primo step, l'obbligo per il finanziatore di adottare procedure per gestire i rapporti con i consumatori che abbiano difficoltà  nei pagamenti, nonchè l'obbligo per la Banca d'Italia di adottare disposizioni di attuazione della legge con particolare riguardo ai casi di stato di bisogno o di particolare debolezza del consumatore. Questa politica si iscrive nel già  consolidato favore, dimostrato dalle autorità  italiane e comunitarie del settore, per il principio di conservazione, ove possibile, del rapporto, anche alla luce di una rinegoziazione in presenza di difficoltà . Solamente quando non sia possibile risolvere diversamente la crisi debitoria, il Decreto Mutui fornisce allora un valido strumento per conseguire l'escussione delle garanzie in maniera più rapida rispetto al passato. Il comma 3 del nuovo art. 120 quinquiesdecies prevede infatti che, fermo quanto previsto dall'articolo 2744 del codice civile (divieto di patto commissorio), le parti possono convenire, con clausola espressa, che, in caso di inadempimento, la restituzione o il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale o dei proventi della vendita dello stesso comporti l'estinzione dell'intero debito a carico del consumatore. In tali ipotesi il debito a carico del consumatore deve considerarsi estinto anche se il valore del bene immobile restituito o trasferito ovvero l'ammontare dei proventi della vendita risulti essere inferiore al debito residuo. Al contrario, qualora il valore dell'immobile ovvero i proventi della vendita risultassero essere superiori al debito residuo, la legge espressamente riconosce al consumatore il diritto a vedersi restituita l'eccedenza. In ogni caso il finanziatore si deve adoperare, con diligenza, per conseguire dalla vendita il miglior prezzo di realizzo possibile. Affinchè si possa parlare di inadempimento la legge precisa che occorre il mancato pagamento di un ammontare equivalente a diciotto rate mensili e chiarisce che non costituiscono inadempimento i ritardati pagamenti che consentono la risoluzione del contratto ai sensi dell'articolo 40, comma 2 del T.U.B., ovvero le ipotesi di ritardato pagamento verificatosi almeno sette volte, anche non consecutive. Occorre precisare che tale clausola non può essere inserita, per espressa esclusione effettuata dalla legge, nei contratti di surrogazione di credito ai sensi dell'art. 120 quater T.U.B. Preme, inoltre, sottolineare come non sia possibile, da parte del finanziatore, condizionare la conclusione del contratto di credito alla sottoscrizione della clausola. Nel caso in cui però il consumatore decida di sottoscriverla il Decreto Mutui prevede espressamente il diritto per il consumatore ad essere assistito, a titolo gratuito, da un consulente in maniera tale da poter più consapevolmente valutarne la convenienza. Clausola che dunque deve essere, oltre che espressa, facoltativa e che in ogni caso si potrà  applicare solo ai mutui ancora da stipularsi al momento dell'entrata in vigore della legge, rimanendo esclusi dall'ambito di applicazione del Decreto Mutui tutti i contratti di credito già  stipulati.

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