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    14 luglio 2020

    Coniugi in comunione legale e società di persone

    Cassazione, ordinanza 27 aprile 2020, n. 8222, sez. I civile. Tra coniugi in regime di comunione legale può essere costituita una società di persone, con un patrimonio costituito dai beni conferiti dagli stessi, essendo anche le società personali dotate di soggettività giuridica, sicché, in caso di recesso di un socio, sorgendo a carico della società l’obbligo della liquidazione della sua quota, la domanda del coniuge receduto di accertamento della comproprietà dei beni sociali può essere interpretata dal giudice come tesa alla liquidazione della sua quota sociale. Nel caso in questione la Suprema Corte ha ritenuto che potesse riqualificarsi come istanza di liquidazione della quota sociale, la domanda della moglie nei confronti del marito tesa all’accertamento della comproprietà dei beni appartenenti ad una società in nome collettivo, di cui i coniugi in regime di comunione dei beni erano unici soci.  Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes  Clicca qui per leggere gli altri articoli SuperPartes  Autore immagine: Pixabay.com © Riproduzione riservata

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    25 febbraio 2017

    Società  di capitali: no al recesso ad nutum...

    Massima n. 6 del luglio 2016, della Commissione diritto societario del Consiglio Notarile di Roma ("durata della società  e recesso legale") Cosa cambia per il cittadino Questa recente massima del Consiglio notarile di Roma, ha accolto la tesi secondo cui si deve offrire al socio di una società  di capitali, la possibilità  di recedere solo nel caso di società  contratta a tempo indeterminato (come dispongono l'art 2437 comma 3, e l'2473 comma 2, c.c.), senza accordare tale diritto quando la durata della società  si estende a tutta la vita di uno dei soci o quando è prevista per un termine assai lungo tale da superare ogni aspettativa di vita. La questione, che vede in contrasto giurisprudenza e dottrina, attiene all'applicabilità  dell'art 2285 c.c. comma 1, nella parte in cui concede al socio la possibilità  di recedere quando la società  è contratta "per tutta la vita di uno dei soci", alle società  di capitali. L'articolo precisato, che contempla i casi di recesso ad nutum del socio, sia nell'ipotesi in cui la società  è contratta a tempo interminato, sia quando lo è per tutta la vita di uno dei soci, si rivolge infatti in realtà  alle società  di persone. In altri termini, il socio di una società  di capitali può, invocando l'applicazione in via analogica di tale disciplina, recedere anche quando la società  abbia una durata commisurata alla vita di uno dei soci? Secondo questa massima notarile che, su questo punto, altro non fa che conformarsi alla giurisprudenza prevalente, NO. E fin qui,la questione è (abbastanza) pacifica. Ma la domanda che il Consiglio Notarile si pone è anche un'altra: può il socio di una società  di capitali recedere liberamente quando la durata della società  sia pari ad un termine assai lungo tale da superare ogni ragionevole prospettiva di vita? Se la società  di capitali è contratta a tempo indeterminato, l'articolo 2437, comma 2 e l'articolo 2473, comma 3, del Codice civile concedono ai soci il diritto di recedere liberamente dalla società  stessa (seppur con un preavviso di 180 giorni); quello che ci si chiede è dunque se, a questa ipotesi, sia equiparabile il caso della durata particolarmente lunga della società . Rispondendo negativamente anche a questo quesito, il Consiglio Notarile di Roma, si pone invece in contrasto con l'indirizzo della Cassazione. Quest'ultima, con un'importante pronuncia del 2013 [1], ha affermato che, nel caso in cui una Srl abbia una durata "fissata in epoca lontana, tale da oltrepassare qualsiasi orizzonte previsionale, non solo della persona fisica ma anche di un soggetto collettivo, il socio ha diritto il recedere, sussistendo le stesse ragioni che hanno indotto il legislatore ad attribuire il diritto di recesso nelle società  contratte a tempo indeterminato". Secondo i notai romani, invece, i soci di società  di capitali non hanno diritto di recedere quando la durata della società  sia determinata, ancorchè in un termine eccedente la vita dei soci. Per approfondimenti chiedi ai Notai SuperParteshttp://associazionesuperpartes.it/notai/ Le ragioni giuridiche. Il Consiglio notarile romano motiva la tesi della non equiparabilità  delle società  di capitali a quelle di persone, ponendo l'accento sul dato normativo: gli articoli 2437 e 2473 c.c., accordano il recesso ad nutum solo nel caso di società  costituita a tempo indeterminato, e non anche, a differenza dell'art 2285 cc., nel caso di un contratto sociale avente durata eccedente la vita di uno dei soci. Dal confronto dei testi normativi si comprende come il legislatore abbia effettuato due scelte differenti. La ratio della diversità , è da ravvisare nella differenza tipologica tra le società : quella di persone si basa sull'intuitus personae, sui soci componenti, mentre quella di capitali, sulla struttura organizzativa. "È per questo motivo - precisa la massima - che nelle società  di capitali si deve fare affidamento su due opzioni nette: durata determinata senza libero recesso, da una parte, e durata indeterminata con libero recesso, dall'altra", superando l'impasse di individuare il significato ambiguo della "durata eccedente l'aspettativa di vita di un socio". D'altronde, continua la massima, la disciplina del recesso delle società  di persone, rappresenta un controaltare al regime di responsabilità  illimitata per le obbligazioni sociali che colpisce i soci, esigenza non altrettanto avvertita in quella di capitali. Per leggere gli altri articoli SuperPartes clicca qui:http://associazionesuperpartes.it/extra/blog/ Dott.ssa Eleonora Baglivo [1] Cass., Sez. I,22/4/ 2013, n. 9662.

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    01 dicembre 2016

    Cessione quote di società di persone: chi...

    Il caso attiene all'ipotesi di cessioni di quote di una società  personale. In particolare ci si chiede se il cedente possa essere chiamato a rispondere dei debiti contratti dalla società  in data successiva alla cessione e se, al contrario, il cessionario possa essere chiamato a rispondere dei debiti contratti dalla società  prima della cessione. Il problema si complica ancor di più ove si consideri che nella prassi notarile si usa inserire nel negozio di cessione una clausola di esonero di responsabilità  reciproca tra le parti proprio nel caso in cui si verifichi una di queste ipotesi. Ma che valore ha questa clausola? Tutela completamente le parti (nel senso che è opponibile ai creditori) oppure garantisce solo un diritto di rivalsa successivo? Per rispondere a questa domanda, occorre prendere le mosse dalla disciplina civilistica in materia societaria. In particolare, l'art. 2269 c.c., rubricato "Responsabilità  del nuovo socio" prevede che chi entri a far parte di una società  già  costituita risponda con gli altri soci per le obbligazioni sociali anteriori all'acquisto della qualità  di socio. Al contrario l'art. 2290 c.c., rubricato "Responsabilità  del socio uscente o dei suoi eredi", prevede che nel caso in cui il rapporto sociale si sciolga limitatamente a un solo socio (nel nostro caso per cessione delle quote), questi o i suoi eredi siano responsabili verso i terzi per le obbligazioni contratte dalla società  solo fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento, che però (pena l'inopponibilità ) deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. Se dunque queste sono le coordinate normative, la situazione del cedente appare ben diversa da quella del cessionario. In altre parole il cessionario è chiamato a rispondere anche per i debiti anteriori al suo ingresso in società , mentre il cedente è chiamato a rispondere solamente per i debiti contratti fino al giorno del negozio di cessione. E la clausola di esonero della responsabilità ? Sicuramente essa ha valore tra le parti del negozio di cessione, facendo nascere un obbligo reciproco di tenere indenne controparte da debiti che, quantomeno temporalmente, non gli spetterebbero. Ma si dubita seriamente che tale accordo di autonomia privata possa arrivare a derogare il dettato normativo. Quello che può fare è, in caso di violazione, far nascere in capo al soggetto leso un diritto di rivalsa (ovvero di restituzione di quanto pagato) nei confronti della controparte resasi inadempiente in relazione a quella specifica clausola contrattuale. Essa tuttavia non può essere ritenuta opponibile ai creditori sociali che si rechino a chiedere il pagamento delle obbligazioni contratte in nome della società . Ovviamente il problema si pone solo per il cessionario, e non per il cedente, il quale, già  in base alla legge, è tenuto a rispondere solamente dei crediti contratti fino al giorno dello scioglimento del contratto sociale. Il cessionario, al contrario, è chiamato a rispondere in solido con gli altri soci anche per i crediti contratti prima della stipula del contratto di cessione, senza poter opporre ai creditori il fatto che sia entrato a far parte della società  in un momento successivo. Quello che potrà  fare, però, è una volta adempiuto il debito, rivolgersi al cedente per il recupero della somma spesa, qualora nell'atto di cessione di quote sia presente la relativa clausola.

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    14 novembre 2016

    Società  di persone e nullità  della clausola...

    La Sesta Sezione della Cassazione[1] è recentemente tornata sul tema della clausola compromissoria presente nei patti sociali di una società  di persone, costituita prima dell'entrata in vigore del D. Lgs 5/03, ribadendo la nullità  di quella clausola che preveda, per le controversie tra soci o tra soci e società , la nomina dell'arbitro ad opera dei soci e, solo in caso di disaccordo, ad opera del Presidente del Tribunale. La Corte di Cassazione rileva come una siffatta clausola si ponga in contrasto con l'art. 34 comma II del D. Lgs. 5/03, immediatamente applicabile alle società  di persone, anche per quanto attiene alle clausole compromissorie stipulate precedentemente alla sua entrata in vigore. La clausola del tipo di quella analizzata dalla Corte prevede, infatti, il deferimento di tutte le controversie che insorgano tra i soci, o tra i soci e società  ad un arbitro amichevole, scelto di comune accordo tra le parti e, solo in caso di disaccordo, dal Presidente del Tribunale su istanza della parte più diligente. In tal modo viene attribuito alle stesse parti in via principale il potere di nomina, mentre il ricorso all'autorità  giudiziaria appare essere una facoltà  meramente subordinata "destinata ad operare soltanto nel caso in cui le parti non riescano a raggiungere un consenso sulla designazione". L'art. 34 del D. Lgs 5/03 prevede, invece, una disciplina differente. In particolare, dopo aver previsto la possibilità  per le società  (ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio ai sensi dell'art. 2325 bis c.c.) di inserire negli atti costitutivi una clausola che preveda la devoluzione a un arbitro delle controversie tra soci o tra soci e società , che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale, precisa tuttavia un requisito necessario della nomina. In particolare stabilisce che, a pena di nullità , il potere di designazione degli arbitri deve essere conferito a un soggetto terzo estraneo alla società  e, nel caso di mancato adempimento da parte di quest'ultimo, su richiesta delle parti, al Presidente del Tribunale del luogo in cui la società  ha sede legale. Ecco dunque che diversamente dalla clausola oggetto di giudizio, il potere non è rimesso in via principale alle parti e solo in via subordinata all'autorità  giudiziaria, ma, al contrario, già  in prima battuta a un soggetto estraneo alla società . Secondo la Corte, quindi, per espressa previsione della legge, dal contrasto del contenuto della clausola oggetto di giudizio e il precetto dettato dell'art. 34 comma II D. Lgs. 5/03 non può che derivare conseguentemente la nullità  della stessa clausola compromissoria. Non rileva, secondo la Corte, il fatto che tale clausola fosse precedente alla riforma che ha investito il settore societario. L'entrata in vigore dell'art. 34 comma II ha comportato, infatti, la nullità  sopravvenuta di tutte le clausole compromissorie contenute negli statuti di società , che non siano state oggetto di adeguamento entro i termini previsti dagli artt. 223 bis e 223 duodecies disp. att. trans. c.c., nella parte in cui attribuiscano il potere di nomina dell'arbitro alle parti e solo in via subordinata all'autorità  giudiziaria. La Corte di Cassazione afferma, infatti, di non condividere l'orientamento del "doppio binario", secondo cui vi sarebbe in tali ipotesi una conversione dell'arbitrato endosocietario in arbitrato di diritto comune, "dal momento che la nullità  comminata dall'art. 34 è volta a garantire il principio di ordine pubblico dell'imparzialità  della decisione". [1] Cassazione civile, Sezione Sesta, Ordinanza n. 21442 del 24 ottobre 2016.

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