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    26 aprile 2017

    Le tre mosse per mettere in sicurezza i conti...

    Oggi le condizioni e le modalità  di esercizio delle attività  professionali sono radicalmente mutate rispetto al recente passato. La concorrenza crescente, la crisi economica che ha colpito il Paese, i rapidi e talvolta frenetici cambiamenti normativi, impongono una gestione dello studio notarile improntata a criteri manageriali. Il mutato scenario di riferimento impone al notaio un controllo sempre più accurato dei conti dello studio. L'obiettivo può essere realizzato con le seguenti tre mosse: la scelta di un sistema contabile analitico in modo da poter controllare i prelevamenti, e le movimentazioni bancarie; l'accensione di almeno tre conti correnti: per le movimentazioni dello studio; per la gestione delle imposte da versare per conto dei clienti e a titolo personale; la determinazione dell'ammontare dei compensi avendo riguardo sia alla complessità  della prestazione, sia ai costi diretti ed indiretti, che devono essere sostenuti con riferimento al singolo atto notarile. La scelta della contabilità  ordinaria consente al professionista il pieno controllo dei risultati dello studio misurando analiticamente i rendimenti dell'attività . La contabilità  ordinaria fornisce al professionista non solo dati di tipo economico, ma anche informazioni di tipo finanziario indispensabili per comprendere l'andamento dell'attività . Ad esempio l'adozione della contabilità  ordinaria impone al professionista la contabilizzazione dei prelevamenti (effettuati dal conto corrente o dalla cassa) a titolo personale. La somma dei prelevamenti effettuati in un anno non dovrebbe mai essere superiore al risultato di esercizio al netto delle imposte. Se i prelevamenti dovessero essere eccedenti dovrà  suonare un campanello di allarme. L'informazione potrebbe ad esempio evidenziare che il notaio avrebbe prelevato le disponibilità  utilizzabili rigorosamente per il versamento delle imposte dei clienti. La stessa finalità  di trasparenza potrà  essere raggiunta con l'accensione di tre distinti rapporti di conto corrente. Il primo, ove far transitare i compensi dell'attività  e le spese riconducibili all'attività  medesima. Sul secondo il notaio potrà  far affluire unicamente le somme erogate dai clienti per il pagamento delle imposte con l'adempimento unico. Queste somme, essendo gestite distintamente non dovranno mai essere prelevate per altre finalità . In pratica le predette somme saranno rigorosamente vincolate al pagamento delle imposte per conto dei clienti. Infine il conto personale deve essere utilizzato/alimentato con i prelievi dal conto relativo all'attività  di studio rappresentando l'operazione, nella sostanza, una vera e propria distribuzione di utili. Lo stesso conto sarà  utilizzato per il sostenimento delle spese personali. La terza mossa consiste nella misurazione della redditività  dello studio per ogni singolo atto. Il notaio dovrà  verificare che il compenso è in grado di coprire almeno i costi diretti ed indiretti per rogare il singolo atto, ivi compresi i contributi da versare mensilmente all'archivio notarile e le imposte. Dopo la copertura totale dei predetti oneri dovrà  residuare un margine positivo, che rappresenta l'utile dell'attività  in grado di remunerare il lavoro del professionista. Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes http://associazionesuperpartes.it/about/ Per leggere gli altri articoli SuperPartes clicca qui: http://associazionesuperpartes.it/extra/blog/ Nicola Forte, Dottore commercialista e Revisore dei conti a Roma

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    25 aprile 2017

    La costituzione di una società  al solo fine di...

    Cassazione Civile, Sezione VI, ordinanza n, 9610 del 13/04/2017   Cosa cambia per il cittadino.   Il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto, sebbene non direttamente contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in mancanza di ragioni economicamente valide e che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di ottenere quel risparmio fiscale. Costituisce pertanto una condotta abusiva l'operazione economica che ha quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di ottenere dei risparmi fiscali e dunque di eludere il fisco. Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes http://associazionesuperpartes.it/notai/ Il fatto. La fattispecie portata all'attenzione della Suprema Corte ha riguardato l'impugnazione di un avviso di accertamento emesso in relazione all'IVA sugli acquisti, a detta dell'Agenzia indebitamente detratta, nei confronti di una società  costituita nel 2003, esercente attività  di "lavori generali di costruzione di edifici" e cancellata nel 2007 a seguito della realizzazione di sole due unità  immobiliari, vendute nel 2006, ai due unici soci della stessa, stante il carattere elusivo dell'attività  svolta dalla società  medesima, ritenuta priva di una valida ragione economica e costituita al solo scopo di conseguire un risparmio d'imposta. I Giudici di primo e di secondo grado avevano accolto il ricorso del contribuente, ritenendo che l'Ufficio non avesse fornito adeguata prova della finalità  elusiva della società . Le ragioni giuridiche. La Corte di Cassazione ha invece accolto il ricorso dell'Agenzia confermando l'orientamento granitico della Corte di Giustizia, già  recepito della medesima Cassazione in materia di abuso del diritto. Secondo la Corte di Giustizia, infatti, perché possa parlare di pratica abusiva occorrono due condizioni: 1) le operazioni devono, nonostante l'applicazione formale della normativa in materia di IVA, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sia contraria all'obiettivo perseguito da tali disposizioni; 2) deve risultare da un insieme di elementi oggettivi che lo scopo essenziale dell'operazione controverse è l'ottenimento di un vantaggio fiscale. Conseguentemente, le Sezioni Unite della Cassazione, anche con riguardo alle imposte dirette, hanno affermato che costituisce principio immanente del nostro Ordinamento quello secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale. Pertanto, costituisce condotta elusiva l'operazione economica che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di eludere il fisco, laddove invece il divieto di siffatte operazioni non opera qualora esse possano spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta. In ragione di ciò, la costituzione di una società  per realizzare e vendere immobili a scopo personale al solo fine di fruire dei relativi vantaggi fiscali, costituisce operazione elusiva e pertanto illegittima. Per quanto concerne l'onere della prova, spetta all'Amministrazione finanziaria provare sia il disegno elusivo che le modalità  di manipolazione e alterazione degli schemi negoziali classici. Sotto tale profilo, la Corte, nel caso di specie, ha condiviso quanto rilevato dall'Agenzia e cioè che fossero elementi sintomatici l'essere stata costituita la società  nel settembre 2003 con due soli soci, tra loro coniugi, l'essere la stessa priva di dipendenti e con una sede di appena 2mq; avere la società  svolto attività  edile consistente nella sola costruzione di due unità  immobiliari; il fatto che gli unici ricavi, a fronte di ingenti costi, avevano riguardato l'anno 2006, a seguito della vendita dei due unici appartamenti effettuata nei confronti dei medesimi soci; la cancellazione della società  nel gennaio 2007. Avv. Ambrogio Dal Bianco Per leggere gli altri articoli SuperPartes clicca qui: http://associazionesuperpartes.it/extra/blog/

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    24 aprile 2017

    Mutuo: quale tasso scegliere?

    La stipula di un mutuo è un momento importante e delicato nella vita di una persona o di un'azienda e deve essere effettuata ponderando con attenzione le varie alternative, a partire dalla scelta della tipologia del tasso, che rappresenta senz'altro uno step fondamentale. La scelta del tasso deve avvenire in base alle proprie esigenze personali, economiche e familiari. Senza alcuna pretesa di esaustività , date le numerose varianti esistenti nel mercato, vediamo di seguito alcune delle opzioni oggi più diffuse. Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes http://associazionesuperpartes.it/notai/ Fisso o variabile? La prima valutazione attiene alla scelta del tasso fisso o variabile. Il tasso fisso normalmente è un po' più alto ma consente di conoscere in anticipo l'importo che si dovrà  pagare senza che possano esserci sorprese. Il tasso variabile, normalmente più conveniente, subisce però variazioni e quindi non è del tutto prevedibile e nel caso si decidesse di optare per un tasso variabile, occorre tener presente che l'importo della rata potrebbe crescere anche notevolmente nel corso degli anni, soprattutto quando il mutuo è a lunga durata. La rata del tasso fisso, al contrario, rimane costante per tutta la durata, ed essendo oggi i tassi particolarmente vantaggiosi, anche al di sotto del 2%, sicuramente rappresenta una buona opportunità , dal momento che il possibile gap di risparmio rispetto al tasso variabile è ridotto, mentre restano immodificati i rischi di innalzamento intrinsechi al tasso variabile. Il tasso misto e il CAP. Esistono altre soluzioni, meno conosciute, che possono essere assolutamente utili in certi casi, come il tasso misto e la fissazione di un CAP. Queste soluzioni permettono di coniugare la convenienza economica di un tasso variabile con la stabilità  e la sicurezza di un tasso fisso. Scegliere un mutuo con tasso misto vuol dire avere la possibilità , a seconda dell'andamento del mercato, di optare, di volta in volta, per un tasso fisso o un tasso variabile. Nel contratto di mutuo, infatti, viene inserita una formula in cui è prevista la possibilità  per il mutuatario di cambiare le modalità  di calcolo degli interessi a scadenze prestabilite. Ovviamente in questo caso il tasso viene fissato a un prezzo più alto rispetto a un normale variabile, tuttavia questa tipologia si presta particolarmente bene per chi ha difficoltà  a scegliere oggi con certezza il tasso d'interesse e vuole riservarsi l'opportunità  in futuro di poterlo modificare rimanendo cliente della stessa banca. Esiste poi anche la possibilità  di inserire nel muto un tetto massimo CAP, optando per un mutuo "capped rate". Questo mutuo a tasso variabile si caratterizza per avere un limite massimo predeterminato, che segna il limite massimo oltre il quale il tasso d'interesse non potrà  mai salire, anche nel caso in cui i tassi di mercato dovessero superarlo e che viene di solito fissato in due o tre punti in più rispetto a quello in vigore. Normalmente, in questo caso, le banche applicano uno spread leggermente più elevato, tuttavia questa soluzione si presta molto bene a soddisfare gli interessi di chi non voglia rinunciare alla convenienza economica del tasso variabile, ma voglia anche proteggersi da un'eventuale eccessiva salita dei tassi oltre una certa soglia, oltre la quale non è disposto ad andare. Per leggere gli altri articoli SuperPartes clicca qui: http://associazionesuperpartes.it/extra/blog/

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    21 aprile 2017

    Cosa succede se il condomino non compare nelle...

    Corte di Cassazione, Sezione II, sentenza n. 4844 del 24 febbraio 2017 Cosa cambia per il cittadino. La mancata inclusione di un'unità  abitativa nelle tabelle millesimali del condominio non priva il soggetto dei diritti a lui spettanti quale condomino, nè lo esonera dal contribuire alle spese di gestione o dal regolarizzare la sua posizione per il pregresso. Questo perché la qualità  di condomino, con tutto ciò che ne consegue in termini di diritti e obblighi, si acquista nel momento in cui si diviene proprietari di parti comuni del fabbricato, a prescindere dall'esistenza o meno di una tabella millesimale (o dall'inclusione nella stessa). Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes http://associazionesuperpartes.it/notai/ Il fatto. La Corte d'Appello di Torino, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato la legittimità  di una delibera assembleare del condominio, avente ad oggetto la nomina dell'amministratore, ritenendo valida la partecipazione all'assemblea e alla successiva votazione di Tizio, proprietario di una unità  immobiliare non inclusa nelle tabelle millesimali, in quanto derivante dalla trasformazione di una porzione non abitativa (sottotetto) in unità  abitativa, non ancora censita al momento dell'assemblea nelle tabelle millesimali. Le ragioni giuridiche. La Corte di Cassazione ha affermato, a conferma di un già  pacifico orientamento giurisprudenziale[1], che la qualità  di condomino si acquista nel momento in cui si diviene proprietari di parti comuni del fabbricato, a prescindere dall'esistenza o meno di una tabella millesimale. La tabella millesimale, infatti, ha natura esclusivamente ricognitiva e non rileva nemmeno come criterio identificativo delle quote di partecipazione al condominio, dal momento che quest'ultimo deve essere rinvenuto nel rapporto tra il valore dell'intero edificio e quello relativo alla proprietà  del singolo ed esiste, quindi, già  prima e indipendentemente dalle tabelle millesimali. Detto in altri termini, l'obbligo contributivo del condominio trova la propria fonte direttamente nella legge, mentre la tabella millesimale si pone solo come parametro di quantificazione dell'obbligo, determinato in base ad una valutazione tecnica. Riportando queste coordinate giuridiche al caso analizzato dalla Corte di Cassazione, è evidente, dunque, che la mancata inclusione di un'unità  immobiliare nella tabella millesimale (situazione a cui può porsi rimedio con lo strumento della revisione) non priva il proprietario dei diritti a lui spettanti quale condomino tra cui, in relazione al caso specifico, quello di concorrere alla scelta dell'amministratore, nè lo esonera di fatto dal contribuire alle spese di gestione o dal regolarizzare la sua posizione per il pregresso. La Corte ritiene, infatti, non condivisibile l'orientamento secondo cui esisterebbe una sorta di connubio indissolubile tra l'obbligo di contribuire alle spese comuni secondo le previsioni delle tabelle millesimali e l'esercizio del diritto di voto, come confermato dal fatto che il legale criterio di ripartizione stabilito dall'art. 1123 c.c. può essere anche derogato dall'autonomia delle parti. Alla luce di tutte queste considerazioni, dunque, la situazione di non inclusione nelle tabelle millesimali non impedisce al condomino di esercitare il proprio diritto di voto in assemblea condominiale nè, dall'altro lato, lo esonera dal pagamento delle spese condominiali anche pregresse. La situazione può essere risolta con la revisione che ha natura costitutiva, mentre per il passato, non potendosi applicare retroattivamente l'efficacia di una sentenza di revisione o modifica dei valori proporzionali di piano nei casi previsti dall'art. 69 disp. att. c.c., per il principio della natura costitutiva della stessa più volte affermato dalla Corte di Cassazione, è possibile rimediare con altri strumenti che l'ordinamento appresta ed in particolare con quello dell'indebito arricchimento ex art. 2041 c.c.. Per leggere gli altri articoli SuperPartes clicca qui: http://associazionesuperpartes.it/extra/blog/ [1] Corte di Cassazione, Sez. U., sentenza n. 18477 del 9 agosto 2010.

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    20 aprile 2017

    Bene costruito su terreno comune: di chi è la...

    Corte di Cassazione, Sezione II, ordinanza interlocutoria n. 9316 dell'11 aprile 2017 Cosa cambia per il cittadino. Qual è il regime proprietario della costruzione realizzata da solo uno dei comproprietari sul terreno comune? E' di tutti i comproprietari o rimane di proprietà  esclusiva di chi l'ha costruito? Sul punto esiste oggi un significativo contrasto giurisprudenziale, che tra l'altro investe un tema molto delicato come quello della circolazione della proprietà  immobiliare. Per queste ragioni la Seconda Sezione di Cassazione ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione. Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes http://associazionesuperpartes.it/notai/ Il fatto. Tizio conveniva in giudizio la società  Alfa, affermando di essere comproprietario indiviso con lei di un terreno e proponeva domanda di scioglimento della comunione di tutti i beni realizzati nel sottosuolo, con conseguente attribuzione delle quote di spettanza di ciascuno previa individuazione degli eventuali conguagli. A fronte della richiesta, la società  Alfa chiedeva il non luogo a provvedere sulla divisione, stante l'intervenuto accordo tra le parti e, in ogni caso, l'attribuzione in proprietà  esclusiva a lei delle porzioni interrare e seminterrate costruite ex novo perché non costituenti parti comuni. Le ragioni giuridiche. La Corte di Cassazione, nell'evidenziare l'opportunità  di rimettere la questione alle Sezioni Unite, ripercorre i due contrapposti orientamenti giurisprudenziali ad oggi esistenti. Il primo orientamento ritiene che, in base al principio dell'accessione previsto dall'art. 934 c.c. la costruzione realizzata su suolo comune debba anch'essa essere considerata di proprietà  comune, a meno che non vi sia un diverso accordo necessariamente scritto (ab substantiam) tra le parti in tal senso. Da ciò deriva che per aversi l'attribuzione in proprietà  esclusiva dei singoli piani non sono sufficienti né il possesso esclusivo, né il relativo accordo verbale e né, infine, il proporzionale diverso contributo alle spese. Il secondo orientamento, più recente, al contrario, afferma che la disciplina dell'art. 934 c.c. si applichi solamente nella diversa ipotesi in cui la costruzione venga eretta su un terreno altrui. Quando, invece, si tratta di un terreno comune, la disciplina a cui occorre volgere le sguardo è quella prevista in materia di comunione. Da ciò deriva che la nuova opera diviene proprietà  comune solamente se realizzata nel rispetto dei limiti del comproprietario all'uso delle parti comuni (artt. 1102 e ss c.c.). Al contrario se l'opera è realizzata abusivamente, essa non può considerarsi bene condominiale per accessione, rimanendo di proprietà  esclusiva del comproprietario che l'ha costruita. La Corte di Cassazione, in questa sentenza, non sembra condividere quest'ultimo orientamento, soprattutto alla luce della considerazione che esso porterebbe alla quantomeno discutibile conclusione per cui l'edificazione su area comune da parte del singolo in violazione di norme di legge gli consentirebbe il beneficio della proprietà  esclusiva della costruzione (tra l'altro difficilmente inquadrabile in uno dei modi di acquisto della proprietà  ex 922 c.c.). Alla luce, quindi, della presenza di un siffatto contrasto giurisprudenziale, che impatta tra l'altro su un argomento assai rilevante come quello della circolazione della proprietà  immobiliare, la Corte di Cassazione ha deciso di rimettere gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. Per leggere gli altri articoli SuperPartes clicca qui: http://associazionesuperpartes.it/extra/blog/

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    19 aprile 2017

    Vendita di un immobile senza certificato di...

    Cassazione civile, Sezione II, 30/01/2017, n. 2294   Cosa cambia per il cittadino. Il venditore di un immobile destinato ad abitazione ha l'obbligo di sostenere tutti gli oneri necessari al fine di ottenere il rilascio del certificato di abitabilità  ed ha altresì un preciso dovere di consegnare all'acquirente il certificato di abitabilità  stesso. In ragione di ciò, la violazione di tale obbligo può legittimare sia la domanda di risoluzione del contratto, sia quella di risarcimento del danno, sia l'eccezione di inadempimento. Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes http://associazionesuperpartes.it/notai/ Il fatto. Con atto di citazione a comparire avanti il Tribunale di Palermo, gli acquirenti di un immobile ad uso abitativo convenivano in giudizio il venditore dello stesso chiedendone la condanna al pagamento della somma corrispondente alle spese necessarie per ottenere la concessione della licenza di abitabilità  dell'immobile da loro acquistato, in ragione del fatto che un anno dopo l'acquisto avevano constatato la presenza al piano terra di forte umidità  e di ciò ne avevano dato notizia al venditore, senza tuttavia avere alcun riscontro. A seguito dell'istruttoria svolta durante tale giudizio, veniva appurato che la risalita di acqua dal sottosuolo era dovuta ad una serie di difetti costruttivi e che tale situazione era ostativa al rilascio del certificato di abitabilità , se non previa realizzazione delle opere occorrenti per rendere l'appartamento conforme alle prescrizioni del regolamento locale di igiene. Il Tribunale di Palermo accoglieva la domanda, condannava il venditore al pagamento dell'importo richiesto e tale decisione veniva confermata dalla competente Corte d'Appello. Avverso tale ultima sentenza proponeva ricorso per Cassazione il soggetto venditore, ma la Suprema Corte ha rigettato tale gravame, confermando la sentenza d'appello. Le ragioni giuridiche. Al fine di comprendere l'istituto in esame, dev'essere ricordato che il certificato di agibilità  è il documento che attesta la sussistenza di determinati standards igienici e sanitari e di sicurezza, garantendo che in fase di costruzione sono state osservate le prescrizioni igienico-sanitarie stabilite dalle leggi vigenti al momento della costruzione o dell'intervento. Dev'essere inoltre premesso che la disciplina dell'agibilità  (o abitabilità ) degli edifici è contenuta nell'art. 24 del DPR 380/2001 (T.U. in materia edilizia) ed è stata recentemente modificata, in nome della semplificazione dei regimi amministrativi in materia edilizia dall'art. 3 del Dlgs 222/2016. Contrariamente alla formulazione originaria di tale norma “ secondo la quale il certificato di agibilità  veniva rilasciato dal dirigente o dal responsabile del competente ufficio comunale su domanda del soggetto titolare del permesso di costruire o di colui che aveva presentato la DIA/SCIA -, l'attuale regime prevede che la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità , risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente, nonché la conformità  dell'opera al progetto presentato e la sua agibilità  sono attestati mediante segnalazione certificata presentata dal soggetto titolare del permesso di costruire, o dal soggetto che ha presentato la segnalazione certificata di inizio di attività . In altre parole, si è passati da un regime in cui l'agibilità  veniva richiesta dal soggetto interessato e rilasciata dall'Ufficio comunale (ferma restando l'applicazione del silenzio assenso decorsi inutilmente 30 giorni dalla presentazione della documentazione necessaria al rilascio), a quello attuale in cui l'agibilità  viene certificata documentalmente (in particolare attraverso l'attestazione del direttore dei lavori o, qualora non nominato, di un professionista abilitato che assevera la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene e salubrità ) direttamente dal soggetto interessato. Orbene, ciò premesso, dev'essere precisato che la vicenda oggetto della sentenza qui in commento si fonda naturalmente sull'applicazione del vecchio regime dell'agibilità . Nello specifico, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dal venditore confermando la sentenza d'appello ed in particolare che il difetto del certificato di abitabilità , risolvendosi nella mancanza di un requisito giuridico essenziale, configura un'ipotesi di vendita di aliud pro alio, legittimante l'acquirente all'esercizio dell'azione risarcitoria. In ragione di ciò, prosegue la Corte, il venditore di un immobile destinato ad abitazione ha l'obbligo di consegnare all'acquirente il certificato di abitabilità  e la violazione di tale obbligo può pertanto legittimare sia la domanda di risoluzione del contratto, con conseguente restituzione di quanto versato, sia quella di risarcimento del danno. A tal proposito ed a scanso di equivoci dev'essere precisato che la Cassazione qualifica l'immobile privo di certificato di agibilità come incommerciabile, laddove tuttavia lincommerciabilità si deve riferire esclusivamente alla possibilità  di azionare il rimedio risolutorio e risarcitorio e non certo alla libera commerciabilità  dell'immobile. In particolare, precisa la Corte, l'inadempimento da parte del venditore all'obbligo di rilasciare il certificato non è escluso dalla circostanza che egli, al momento della stipula, abbia già  presentato una domanda di condono per sanare l'irregolarità  amministrativa dell'immobile; né rileva che l'immobile fosse già  utilizzato dai precedenti proprietari o inquilini a fini abitativi. Per completezza dev'essere altresì evidenziato che in altre circostanze la Cassazione ha avuto modo di precisare che queste stesse considerazioni valgono anche nel caso in cui venditore e acquirente abbiano firmato solo un contratto preliminare e non ancora l'atto di trasferimento della proprietà  vero e proprio. Anche in tale ipotesi, infatti, è sufficiente la mancanza di agibilità  per poter recedere dalla promessa di acquisto e non addivenire alla stipula del contratto definitivo[1]. Avv. Ambrogio Dal Bianco Per leggere gli altri articoli SuperPartes clicca qui: http://associazionesuperpartes.it/extra/blog/ [1] Per esempio, Cass. Civ., Sez. II, 08/02/2016, n. 2438: l'acquirente ha interesse a ottenere la proprietà  di un immobile che sia idoneo ad assolvere la funzione economico-sociale e a soddisfare i bisogni che inducono all'acquisto. Di conseguenza, se il promittente venditore non consegna il certificato di agibilità , la stipula del definitivo può sempre essere rifiutata, anche se la mancata consegna dipende dall'inerzia del Comune al rilascio del documento. Infatti, l'obbligo di consegnare il certificato di agibilità grava ex lege sul venditore, in base all'art. 1477, comma 3, c.c. e a ciò consegue che il rifiuto del promissario acquirente di stipulare la compravendita definitiva di un immobile privo dei certificati di abitabilità  o di agibilità e di conformità  alla concessione edilizia. Il venditore, dunque, ha l'obbligo di consegnare all'acquirente il certificato, richiedendolo e sostenendone le spese, e l'inadempimento di tale obbligo è di per sé foriero di danno emergente, in quanto costringe l'acquirente a provvedere in proprio. 

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    18 aprile 2017

    Come prevenire una lite con il contratto di...

    Cassazione civile, sez. II, sentenza del 20 ottobre 2014,n. 22183 Cosa cambia per il cittadino Possono gli eredi andare da un notaio per identificare catastalmente i beni corrispondenti alle espressioni, poco chiare, utilizzate dalla de cuius (la madre) nel testamento olografo, eliminando le incertezze sulle rispettive proprietà ? Se è vero che il contratto è l'accordo tra due o più parti volto a costituire, modificare o estinguere tra loro una situazione giuridica, è altrettanto vero che esistono figure contrattuali che non servono a modificare posizioni giuridiche ma semplicemente ad accertarle. Questi sono i contratti di accertamento che, data una situazione di incertezza sull'esistenza o sul contenuto di posizioni soggettive delle parti, la eliminano chiarendo se la posizione esiste e che contenuto ha. In altri termini, le parti "riconoscono" che il loro precedente rapporto giuridico si configura nel modo accertato. Anche se finora abbiamo parlato di "contratti", è bene precisare come l'accertamento possa avvenire anche unilateralmente ad opera della parte contro interessata. Requisito di ammissibilità  del negozio di accertamento, è una preesistente situazione di incertezza. Infatti, la sua ratio, è quella di rendere certa una determinata situazione giuridica già  sorta, ma non ha una funzione costitutiva o traslativa, cioè non può "creare" un rapporto giuridico o trasferire diritti, ma presuppone qualcosa di già  "creato" di cui le parti ne riconoscono definitivamente l'esistenza o i contenuti. La causa è la semplificazione della prova, a favore del beneficiario diritto, in un eventuale giudizio: per smantellare la forza di titolo del contratto di accertamento, spetta al convenuto dimostrare la difformità  dalla situazione reale. In questo senso il contratto di accertamento ha sicuramente un effetto deflattivo del contenzioso in quanto le parti dispongono sul piano processuale, quando assumono come reale quanto accertato pattiziamente. Facciamo un esempio. Poniamo che Tizio appaia quale unico titolare di un'officina, ma che in realtà  si tratti di un rapporto di tipo societario non manifestato all'esterno, nel senso che solo un soggetto appare quale titolare dell'officina meccanica, e che i conti correnti presso cui erano depositati i proventi dell'attività  aziendale non erano intestati alla società , ma cointestati in via disgiuntiva ai due fratelli. Tuttavia, tramite scrittura privata, i due fratelli riconoscono l'esistenza del rapporto di società  ed il fatto di essere comproprietari di tutti i beni immobili individualmente intestati, in quanto acquistati con i proventi dell'officina meccanica appartenente ad entrambi perchè costituita ed avviata con il lavoro comune. Questa scrittura privata è qualificabile come contratto di accertamento e come tale, fa presumere come vero ciò che esso stabilisce. Per approfondimenti chiedi ai Notai SuperParteshttp://associazionesuperpartes.it/notai/ Il fatto I fratelli Verdolini, Giulia e Filippo*, avevano posto in essere un negozio di accertamento, allo scopo di superare le incertezze derivanti dalla formulazione delle disposizioni testamentarie e assegnarsi reciprocamente la proprietà  esclusiva dei beni lasciati dalla madre. L'accertamento cosi compiuto aveva consentito di dare attuazione al testamento olografo, che costituiva il titolo di acquisto della proprietà . I ricorrenti contestano che non vi fosse incertezza sulla individuazione dei beni oggetto dell'eredità , assumendo che l'identificazione catastale effettuata con l'atto in questione, era finalizzata alla mera trascrizione del testamento. La Cassazione rigetta il ricorso, affermando che l'atto con il quale gli eredi individuano i beni immobili oggetto delle disposizioni testamentarie, specificando i relativi dati catastali, pur rimanendo strumentale alla trascrizione non esaurisce in detta strumentalità  la sua causa, in quanto definisce il contenuto delle disposizioni testamentarie secondo la funzione tipica del negozio di accertamento: esso ha funzione ricognitiva del contenuto del precedente negozio dispositivo, nella specie del testamento olografo, che determina l'effetto di attribuire, a ciascuno dei soggetti nominati nel testamento, i beni specificamente individuati. Quindi alla domanda con la quale si aperta la questione, bisogna rispondere sì, che si può, tramite il negozio di accertamento; tuttavia, come ribadisce la sentenza, bisogna tenere ferma la premessa che iltitolo traslativo della proprietà  in capo ai fratelli era costituito dal testamento olografo della madre, non dal negozio di accertamento, che si annette solamente a questo ultimo, definendolo. *I nomi di persona utilizzati sono frutto della fantasia dell'autrice. Ragioni giuridiche Con la sentenza in commento, la Cassazione ha avuto modo di ribadire che il contratto di accertamento, non determina ex se il trasferimento di beni e di diritti da un soggetto all'altro, nè costituisce fonte autonoma degli effetti giuridici da esso fissati, in quanto rende soltanto definitivi l'ambito e gli effetti di una situazione giuridica sorta tramite un precedente contratto. Il fatto che il negozio di accertamento non costituisca esso stesso, fonte del rapporto tra le parti, non significa, però, che il medesimo rapporto debba essere provato altrimenti, che, diversamente, la stessa funzione del negozio d'accertamento verrebbe vanificata. La ratio di questo negozio è infatti quella di prevenire l'insorgere delle liti: i fatti contenuti nell'atto sono fuori contestazione, e se la parte contro interessata vuole adire in giudizio per contestarli, dovrà  allegare specifica prova. Unica avvertenza (soprattutto ai notai): fare attenzione che il negozio di accertamento non venga utilizzato con intento traslativo o per sopperire a un negozio nullo! Per leggere gli altri articoli SuperPartes clicca qui:http://associazionesuperpartes.it/extra/blog/ Dott. ssa Eleonora Baglivo

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    13 aprile 2017

    Consegna dell'immobile oggetto del preliminare:...

    Corte di Cassazione, Sezione III, sentenza n. 19403 del 30 settembre 2016 Cosa cambia per il cittadino. La Corte di Cassazione ha affermato che, in caso di inadempimento di un contratto preliminare, in base al quale sia già  avvenuta la consegna dell'immobile, il promittente venditore ha diritto sia a incamerare la caparra (che svolge una funzione di liquidazione preventiva del danno per inadempimento) sia a chiedere il risarcimento del danno per il periodo in cui l'immobile sia stato eventualmente occupato "sine titulo". In base a quest'ultima circostanza, al promittente venditore spetta, in particolare, un'indennità  di occupazione, che deve essere calcolata tenendo conto dell'intero periodo dell'occupazione (e non solamente a decorre dalla domanda di rilascio dell'immobile). Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperParteshttp://associazionesuperpartes.it/notai/ Il fatto. Le parti avevano stipulato un contratto preliminare di compravendita di un immobile, il cui prezzo era stato in parte pagato al momento della stipula a titolo di caparra, mentre la restante parte doveva essere pagata in parte alla consegna delle chiavi e in parte al rogito. Successivamente, però, a seguito del parziale mancato pagamento della somma pattuita, la parte promittente venditrice aveva esercitato il recesso dal contratto, chiedendo giudizialmente il rilascio del bene e il risarcimento del danno. A fronte di tale richiesta, la promissaria acquirente aveva però eccepito l'esistenza di infiltrazioni d'acqua, domandando a sua volta il trasferimento dell'immobile ex articolo 2932 c.c. e la riduzione del prezzo. Le ragioni giuridiche. La Corte di Cassazione si è pronunciata a favore del promittente venditore, stabilendo che il trattenimento della caparra non è di ostacolo alla liquidazione di ulteriori danni subiti per la protratta occupazione dell'immobile. Afferma la Corte, infatti, che la somma di denaro che, all'atto della conclusione di un contratto preliminare di compravendita, il promissario acquirente consegna al promittente venditore a titolo di caparra confirmatoria, assolve la funzione di preventiva liquidazione del danno in caso di inadempimento, mentre il danno da illegittima occupazione dell'immobile, frattanto consegnato al promissario, discende da un distinto fatto illecito, costituito dal mancato rilascio del bene dopo il recesso dal contratto del promittente e legittima quest'ultimo a richiedere un autonomo risarcimento. Ne consegue che il promittente venditore ha diritto non solo a recedere dal contratto ed a incamerare la caparra, ma anche ad ottenere dal promissario acquirente inadempiente il pagamento dell'indennità  di occupazione dalla data di immissione dello stesso nella detenzione del bene sino al momento della restituzione, attesa l'efficacia retroattiva del recesso tra le parti. Questo perchè la risoluzione del contratto fa venir meno la legittimità  del possesso del bene da parte del promissario acquirente, trasformandosi la stessa in una sorta di "occupazione sine titulo". La legittimità  originaria del possesso, infatti, viene meno a seguito della risoluzione, lasciando che l'occupazione dell'immobile si configuri come "sine titulo". Ne consegue che tali danni, originati dal lucro cessante per il danneggiato che non ha potuto trarre frutti nè dal pagamento del prezzo nè dal godimento dell'immobile, devono essere liquidati dal giudice di merito, tenendo conto dell'intera durata dell'occupazione e non solo a partire dalla domanda giudiziale di risoluzione contrattuale. Per leggere gli altri articoli SuperPartes clicca qui:http://associazionesuperpartes.it/extra/blog/

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