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    19 luglio 2019

    La Cassazione ribadisce la nullità...

    La Cassazione ribadisce la nullità dell’alienazione a scopo di garanzia commissoria. L’11 luglio è stata depositata la sentenza della seconda sezione civile della Corte di Cassazione n. 18680 che ribadisce i principi affermati dalla Corte stessa nel corso degli ultimi anni in tema di alienazione a scopo di garanzia e patto commissorio. Viene accolto il ricorso delle parti che chiedevano la dichiarazione della nullità della compravendita immobiliare stipulata con una società per violazione dell’art. 2744 c.c. e gli Ermellini cassano la sentenza con rinvio al giudice di merito. Nello specifico la sentenza in oggetto ribadisce che: “Ogni qualvolta la vendita con patto di riscatto o retrovendita, stipulata fra il debitore ed il creditore, risponda all’intento delle parti di costituire una garanzia, con l’attribuzione irrevocabile del bene al creditore solo in caso di inadempienza del debitore, il contratto è nullo anche quando implichi un trasferimento effettivo della proprietà (con condizione risolutiva), atteso che, pur non integrando direttamente il patto commissorio, previsto e vietato dall’art. 2744 c.c., configura un mezzo per eludere tale norma imperativa e quindi, esprime una causa illecita che rende applicabile all’intero contratto la sanzione dell’art. 1344 c.c.”. La Giurisprudenza a partire da due sentenze gemelle della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (1611/1989 e 1907/1989) ha affermato il principio secondo il quale il divieto del patto commissorio non colpisce una determinata struttura negoziale ma un assetto di interessi sotteso all’operazione di volta in volta posta in essere. Questo concetto è stato ribadito da numerosissime sentenze successive ed in particolare in quella del 20 febbraio 2013 n. 4462 si statuisce. “In materia di nullità per violazione del divieto del patto commissorio, non è possibile in astratto identificare una categoria di negozi soggetti a tale nullità, occorrendo invece riconoscere che qualsiasi negozio può integrare tale violazione nell’ipotesi in cui venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento giuridico, di far ottenere al creditore la proprietà del bene dell’altra parte nel caso in cui questa non adempia la propria obbligazione”. Alla luce di tali pronunce il divieto in oggetto ha trovato applicazione in tutte le ipotesi in cui la ratio ed il fondamento dello stesso risultassero violati, indipendentemente quindi dall’efficacia del negozio (sospensivamente o risolutivamente condizionato all’inadempimento) e dalla circostanza che l’alienazione fosse collegata a un debito già garantito da pegno o ipoteca oppure no. In dottrina ed in giurisprudenza, però, non si è giunti ad una conclusione unanimemente condivisa sulla ratio del divieto del patto commissorio. Può affermarsi, tuttavia, che la ricostruzione moderna e maggiormente rispondente a tali ultimi orientamenti affermati, individua la ratio del divieto nel disfavore dell’ordinamento giuridico nei confronti della predeterminazione dei rapporti di valore tra l’oggetto della garanzia e il debito, cioè verso una regolamentazione anticipata e definitiva delle modalità di attuazione della responsabilità debitoria nell’ipotesi di inadempimento mediante la pattuizione del trasferimento di un bene immobile del debitore a tacitazione del debito. L’Ufficio studi del CNN nello Studio sulla cessione in garanzia n. 341-2009/C del 17 settembre 2009 pure aderisce a questa ultima ricostruzione.                                                            Avvocato Andrea Pentangelo Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes  Clicca qui per leggere gli altri articoli SuperPartes Autore immagine: Pixabay.com © Riproduzione riservata

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    08 luglio 2019

    Le dieci cose da sapere sulle azioni riscattande

    8/07/191) Quale è la loro caratteristica? Le azioni riscattande o anche dette redimibili consistono in azioni che attribuiscono al titolare delle stesse il diritto potestativo di farle riscattare, al ricorrere di determinate condizioni, dalla società o dagli altri soci. 2) In base a quale principio sono ammissibili? Esse non sono espressamente previste e disciplinate dal legislatore e, secondo la prevalente dottrina trovano il loro fondamento nel principio di atipicità delle azioni di categoria desumibile dall’art. 2348 secondo comma c.c..  3) Quale è la ratio sottesa alla loro emissione? L’emissione delle azioni suddette rientra nell’ambito delle operazioni di “finanziamento partecipativo” in base al quale, da un lato vi è un vantaggio per la società che aumenta il suo capitale sociale, e dall’altro vi è una incentivazione per il socio che ottiene tali azioni essendo libero di smobilizzarle esercitando il diritto potestativo ad esse connesso. 4) Quale è la differenza con le azioni riscattabili? Le azioni riscattabili sono previste dall’art. 2437-sexies c.c. e consistono in azioni che attribuiscono alla società il diritto potestativo di riscattarle dal socio. Diversamente dalle azioni in esame, dunque, vi è una legittimazione attiva del riscatto in capo alla società e non al socio.   Nelle azioni riscattabili il riscatto si configura come una opzione di acquisto (c.d. call) in favore della società o degli altri soci mentre nelle azioni riscattande il riscatto si configura come una opzione di vendita (c.d. put) in favore dell’azionista di categoria. Le categorie in esame, in conclusione, sono simmetriche ma opposte e si ritiene che alle azioni riscattande non si applichino in via analogica i limiti dell’art. 2437-sexies c.c..  5) Quale è la differenza con il recesso? Taluni Autori ritengono che il fondamento delle azioni riscattande possa risiedere nella possibilità di prevedere cause convenzionali di recesso. La prevalente dottrina, tuttavia, evidenzia la netta differenza con il recesso. Mentre il recesso, infatti, è ancorato a cause specifiche predeterminate nello statuto sociale, il riscatto in oggetto è rimesso all’arbitrio dell’azionista di categoria. 6) Con quale divieto dell’ordinamento possono contrastare? Il contenuto delle azioni riscattande, ferma restando la loro caratteristica suddetta, può essere variamente disciplinato dallo statuto sociale e, nella prassi si è riscontrato, talvolta, la previsione in base alla quale all’azionista spetta quale prezzo del riscatto una somma predeterminata pari o addirittura superiore al costo di acquisto. E’ stato rilevato che in tale ipotesi il socio non correrebbe alcun rischio di impresa inerente al fatto che al momento della vendita delle proprie azioni il loro valore possa essere diminuito. Ciò contrasterebbe, secondo taluni, con il divieto del patto leonino sancito dall’art. 2265 c.c. in forza del quale è nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite. 7) Quale è la posizione della giurisprudenza di merito in ordine ai limiti delle azioni riscattande? Sul problema del conflitto della clausola di riscatto per un prezzo pari o superiore a quello di acquisto delle azioni e il divieto del patto leonino si è pronunciato il Tribunale di Firenze con sentenza del 16 luglio 2015. Esso ha statuito che il divieto del patto leonino postula che l’esclusione dalle perdite e dagli utili sia, contemporaneamente, sostanziale, assoluta e costante. Qualora vi sia una condizione o un termine all’esercizio del riscatto viene meno il requisito della costanza e non si viola il divieto del patto leonino. 8) La posizione della giurisprudenza di legittimità? Sulla questione in esame si è pronunciata anche la Corte di Cassazione con ordinanza del 4 luglio 2018 n. 17498 la quale ha riconosciuto come meritevole di tutela  l’attribuzione del diritto di vendita delle azioni da parte del socio alla società ad un prezzo predeterminato, anche pari a quello di acquisto o maggiorato degli interessi e del rimborso dei versamenti effettuati nelle more alla società, purchè detto diritto venga esercitato entro un certo termine stabilito. 9) Cosa sostengono le Commissioni per gli orientamenti societari dei Consigli Notarili?    Si sono occupate in maniera specifica delle azioni riscattande le Commissioni per gli orientamenti societari dei Consigli Notarili di Roma e di Firenze. La Massima 5/2016 della Commissione per gli orientamenti societari del Consiglio Notarile di Roma afferma che la posizione passiva incombe sugli azionisti ordinari e non sulla società per non eludere la normativa sulla riduzione del capitale e sul divieto di distribuzione di utili fittizi ai sensi degli artt. 2445 c.c. e 2433 c.c.. Sostiene, inoltre, che il valore di acquisto da parte degli altri soci non debba necessariamente seguire i criteri di valutazione stabiliti per il recesso ex art. 2437-ter c.c.. Possono, quindi, prevedersi anche canoni diversi purchè determinati o determinabili ex ante. La Massima 67/2018 della Commissione per gli orientamenti societari del Consiglio Notarile di Firenze fa una distinzione tra l’ipotesi in cui onerati dell’acquisto siano gli altri azionisti e quella in cui onerata dell’acquisto sia la società. Nella prima ipotesi in caso di prezzo predeterminato a priori in una misura pari o superiore al prezzo di acquisto la clausola è valida solo se il diritto di riscatto sia subordinato al verificarsi di condizioni non meramente potestative. Nella seconda ipotesi il rispetto dei limiti di legge all’acquisto delle azioni proprie è condizione sufficiente per la legittimità di qualsiasi previsione statutaria circa la determinazione del prezzo di vendita delle azioni riscattande.  10) Quali sono gli accorgimenti redazionali? Alla luce delle considerazioni giurisprudenziali e dottrinarie ai fini della validità della clausola di riscatto in esame è necessario che la redimibilità delle azioni sia: - sottoposta ad un termine che non coincida con la durata della società ma sia circoscritto ad un determinato periodo; - cumulativamente o alternativa rispetto al termine, sottoposta ad una condizione predeterminata non potestativa o non meramente potestativa, secondo parte degli Autori; - cumulativamente o alternativamente, senza predeterminazione di un prezzo di riscatto il quale è affidato ad un arbitratore o con predeterminazione di un prezzo inferiore al costo di acquisto. Avvocato Andrea Pentangelo Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes  Clicca qui per leggere gli altri articoli SuperPartes  Autore immagine: Pixabay.com © Riproduzione riservata

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    01 luglio 2019

    La servitù di parcheggio

    La servitù di parcheggio La Corte di Cassazione (Cass. 23708/2014) tornando sul tema della servitù di parcheggio e, confermando un orientamento consolidato, ha ribadito che la servitù di parcheggio (oggetto di quella specifica causa) sarebbe nulla per impossibilità dell’oggetto, mancando la “realitas” da intendersi quale inerenza dell’utilità al fondo dominante. A ben vedere, tuttavia, la declaratoria di nullità riguarda la clausola contenuta nell’atto costitutivo della servitù portata all’attenzione della Corte, e non già la servitù di parcheggio in sé. Stesso discorso va fatto con riferimento ad altre sentenze (Cass. 24510/2016 e Cass. 27442/2014) che non negano in assoluto la configurabilità di una servitù di parcheggio, ma si occupano di interpretare in maniera rigorosa gli atti posti alla base della pretesa, negando la sussistenza della servitù di parcheggio, ove ciò non risulti con precisione dai titoli. La servitù volontaria è un diritto reale tipico (ossia previsto e disciplinato dal codice civile) ma a contenuto atipico (o meglio libero), in quanto l’utilità può essere liberamente determinata dalle parti. È ben possibile, quindi, che il “parcheggio” (cioè lo stazionamento senza limiti di tempo di determinati veicoli) possa rappresentare il contenuto dell’utilità di cui all’art. 1027 c.c.. La qualifica di diritto “reale” attribuisce l’opponibilità erga omnes della servitù medesima, caratteristica totalmente estranea alle figure limitrofe rappresentate dalle cd. “servitù personali” (assimilabili a diritti di usufrutto, uso e abitazione) e “servitù irregolari” (costitutive di rapporti obbligatori tra il proprietario di un immobile ed un soggetto creditore, sia o no esso proprietario di altro immobile). La corretta formulazione di una clausola costitutiva di una servitù volontaria deve tener conto degli elementi essenziali del diritto de quo, e precisamente: la specificità del godimento (ossia l’accurata e definita descrizione del tipo di utilità che il fondo dominante ricava sul fondo servente); l’inerenza reale (da intendersi come inerenza del peso sul fondo servente e come inerenza dell’utilitas sul fondo dominante);l’alterità soggettiva fra proprietario del fondo servente e proprietario del fondo dominante;l’individuazione precisa del luogo in cui verrà esercitata la servitù (localizzazione). Una clausola contrattuale che evidenzi questi punti fondamentali, sottolineando, in particolare, l’inerenza dell’utilità al fondo dominante e non al soggetto che, occasionalmente, ne risulta attualmente proprietario, e che individui in maniera precisa il luogo e le modalità di esercizio della facoltà che rappresenta l’utilitas oggetto di servitù, non sarebbe passibile di censura alcuna. Qualche dubbio si può porre nel caso in cui l’intero fondo servente sia un’area destinata a parcheggio che a seguito della costituzione della servitù esaurisca integralmente l’utilità che il bene può dare al proprietario; in tal caso non si tratterà di una servitù, ma di un diritto diverso. Criterio fondamentale, quindi, è che il diritto di proprietà sul fondo servente non risulti svuotato, residuando al relativo titolare il diritto di fare ogni e qualsiasi uso della cosa che non confligga con l’utilitas concessa. In conclusione, è ammissibile una servitù di parcheggio la cui clausola costitutiva contenga gli elementi essenziali sopra elencati, fermo restando il suddetto limite. Alessandro Angelone Italiano, Notaio a Milano e  Socio di Associazione SuperPartes   Per approfondimenti chiedi ai Professionisti SuperPartes  Clicca qui per leggere gli altri articoli SuperPartes    Autore immagine: Pixabay.com © Riproduzione riservata  

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