Corte di Cassazione penale, sezione V, sentenza n. 2723 07/10/2016, (ud. 07/10/2016, dep.20/01/2017).

Cosa cambia per il cittadino

La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca Facebook, integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art 595 cod. pen., comma 3.

In altri termini, quando un soggetto esprime parole offensive nei confronti di un altro e le condivide su una bacheca Facebook, non verrà  più "sanzionato" solo "socialmente" dalle critiche di quanti prendono la difesa della persona offesa, ma sarà  punito anche dalla legge.

E' già  da qualche anno che la Cassazione si confronta con l'utilizzo illecito di questi mezzi di comunicazione e segnatamente di Facebook, il social più usato nel mondo, in ragione del fatto che ciò che compare sulla bacheca (nei post o nei commenti), ha una potenziale capacità  di raggiungere un numero indeterminato di persone, lo stesso che accade con il mezzo stampa. Con l'inconveniente, rispetto alle notizie diffamatorie che si diffondono tramite i giornali, che qualunque nemico o come si dice in gergo "hater", può denigrarci su Facebook; tanto che sembra ritornare la frase di Umberto Eco, molto contestata dai più "democratici", in cui affermò che con Facebook si è dato "diritto di parola a legioni di imbecilli".

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Il fatto

Era successo che Tizia, amante di Caio, il quale era fidanzato con Sempronia, inviava ripetutamente messaggi a quest'ultima apostrofandola come "cornuta", inserendo infine il messaggio offensivo sul profilo Facebook di Sempronia. La Corte d'Appello di Trieste aveva qualificato il fatto ai sensi dell'at 595 cod. pen., comma 3. La condannata, ricorre per Cassazione, dolendo, per quel che qui rileva, l'errata applicazione dell'art. 595 c.p., poichè il Giudice di appello avrebbe giudicato integrata la diffamazione sulla base della testimonianza della persona offesa, che aveva riferito che il suo profilo in quel periodo era accessibile a tutti. Secondo il ricorrente lasentenzasarebbe, così, fondata su una valutazione soggettiva e non sull'accertamento oggettivo che la comunicazione con più persone si sia realizzata.

Sappiamo tutti che qualsiasi contenuto si condivida sulla bacheca Facebook (frasi, foto, video, canzoni ecc.), può essere visto da un pubblico molto vasto, che varia in base alla natura della privacy prescelta: se è impostata su "amici", lo potranno vedere tutti i contatti con i quali il titolare del profilo ha autorizzato ad interagire, se invece è impostata su "pubblico", chiunque può visualizzare i post.

Si intuisce dunque che la divulgazione di un contenuto tramite Facebook ha, per natura di questo mezzo, potenzialmente la capacità  di raggiungere un numero interminato di persone che usano questo social proprio per instaurare relazioni allargate, anche con persone che non conoscono se non virtualmente. Basta pensare che secondo alcune statistiche, il valore mediano del numero di amici con cui gli iscritti a Fb sono connessi, si aggira sui 350.

Ragioni giuridiche

L'accessibilità  del profilo Facebook, quanto meno da parte delle persone autorizzate ad entrare in relazione con il suo titolare, è stato perciò il dato di fatto sul quale la Cassazione ha ritenuto che la diffusione di un messaggio che offende l'altrui reputazione, integri l'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art 595, comma 3 del codice penale.

Nemmeno contestando l'assenza dell'elemento soggettivo, l'imputata è riuscita ad evitare la condanna per il reato di diffamazione, ritenendo la Suprema Corte che l'uso consapevole di espressioni che nel contesto sociale di rifermento risultano oggettivamente denigratorie, integra il dolo generico, elemento sufficiente e necessario per tale reato. La ragazza era a conoscenza di avere una relazione con il fidanzato dell'offesa, per questo l'ha chiamata "cornuta", non solo ridicolizzandola agli occhi di tutti, ma anche rovinando il rapporto interpersonale tra i due fidanzati.

Inoltre, continua la Corte, l'epiteto assume un significato discriminante nei confronti del sesso femminile, in violazione del principio di uguaglianza ex art 3 della Costituzione, lasciando intendere una diversa considerazione sociale tra uomo e donna.

La diffamazione mediante Facebook è meno grave di quella a mezzo stampa

Merita infine un cenno una recente pronuncia della Cassazione penale[1], secondo la quale, ancorchè la diffamazione su Facebook sia aggravata ex art 595 comma 3 cod. pen., tale social network non è inquadrabile nel concetto di stampa. Facebook rientrerebbe invece nella categoria aperta di "qualsiasi altro mezzo di pubblicità ", che il legislatore, ai fini della tipizzazione della circostanza aggravante, ha giustapposto a "mezzo della stampa".

La capacità  di raggiungere un ampio pubblico, non giustificherebbe l'equiparazione tra la stampa e i social network, i quali sarebbero strutturalmente e finalisticamente diversi. Essendo i social piattaforme create per offrire un servizio di rete sociale volto a mettere in contatto più persone all'interno dello stesso sistema, hanno la caratteristica della socializzazione, estranea invece alla stampa. Per questo motivo, se la diffamazione avviene tramite Fb, non si applicherebbe la legge speciale sulla stampa n. 47/198 che aggrava la pena di reclusione fino a 6 anni.

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[1] [Cass. pen. V sez., 14.11.2016, sent. n. 4873]

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Corte di Cassazione penale, sezione V, sentenza n. 2723 07/10/2016, (ud. 07/10/2016, dep.20/01/2017) - La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca Facebook, integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art 595 cod. pen., comma 3. In altri termini, quando un soggetto esprime parole offensive nei confronti di un altro e le condivide su una bacheca Facebook, non verrà  più "sanzionato" solo "socialmente" dalle critiche di quanti prendono la difesa della persona offesa, ma sarà  punito anche dalla legge.