La questione attiene alla qualificazione della permanenza da parte del coniuge, dopo la morte dell'altro coniuge, nella casa familiare e dell'uso dei relativi mobili, entrambi di proprietà , anche solo parzialmente, del coniuge defunto.

Le soluzioni prospettabili, a lungo entrambe sostenute, poggiano sulla disciplina prevista dal Codice civile in materia.

In primo luogo si potrebbe ipotizzare l'applicazione dell'art. 485 c.c., che prevede la figura del chiamato all'eredità  (e dunque nel caso di specie il coniuge) che sia nel possesso dei beni ereditari, che in tal caso consisterebbero nella dimora familiare e nel mobilio. La sua permanenza dunque all'interno della casa familiare potrebbe essere qualificata come possesso di beni ereditari, con tutto ciò che ne consegue in termini giuridici e fiscali.

In secondo luogo si potrebbe ipotizzare, invece, l'applicazione dell'art. 540 c.c., che prevede che al coniuge, che concorra con altri chiamati all'eredità , debbano essere riservati il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se quest'ultimi risultano essere di proprietà  del coniuge defunto o comuni ad entrambi.

Tra le due ricostruzioni appare preferibile la seconda, come ritenuto dalla recente giurisprudenza[1]. In particolare l'argomento a fondamento della prima tesi, e contro la seconda tesi, è sempre stato, in passato, la non applicabilità  dell'art. 540 c.c. alla successione legittima, ritenendo la disposizione operante solo nel diverso caso di successione necessaria.

Tuttavia tale ricostruzione appare ormai superata anche alla luce della Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, che si sono espresse a favore della sua applicabilità  anche nell'ipotesi di successione legittima.

Da ciò deriva che, al coniuge, al di là  anche della sua qualità  di chiamato all'eredità , spetta comunque, al momento dell'apertura della successione, il diritto di abitazione sulla casa familiare e il diritto di uso dei mobili che la corredano, in qualità  di legato ex lege e senza necessità  di espressa accettazione.

La sua permanenza nella dimora familiare è, dunque, qualificabile correttamente come legittimo esercizio di tali diritti, riconosciutigli per espressa previsione di legge e non esercizio del possesso ai sensi dell'art. 485 c.c...

Questo comporta rilevanti ricadute applicative. Ad esempio, come affermato dalla Corte di Cassazione, da ciò discende che, nel caso in cui il coniuge superstite abbia rinunciato all'eredità , non può essere chiamato a rispondere di un debito (anche da parte del fisco) appartenente al de cuius, in quanto la mera permanenza nella casa familiare non è manifestazione di possesso dei beni ereditari, ma semplice esercizio di un diritto legittimo riconosciuto per legge[2].

[1] Cass. Sez. Un. n. 4847 del 27 febbraio 2013 nonchè, da ultimo, Cass. n. 1588 del 27 gennaio 2016.

[2] Cass. n. 1588 del 27 gennaio 2016.

La questione attiene alla qualificazione della permanenza da parte del coniuge, dopo la morte dell'altro coniuge, nella casa familiare e dell'uso dei relativi mobili, entrambi di proprietà , anche solo parzialmente, del coniuge defunto.
Le soluzioni prospettabili, a lungo entrambe sostenute, poggiano sulla disciplina prevista dal Codice civile in materia.