La scissione societaria non può essere oggetto di azione revocatoria secondo il Tribunale di Roma, sezione fallimentare, ordinanza del 7 novembre 2016, dal momento che quest'ultima sarebbe incompatibile con le garanzie e la disciplina della scissione societaria, ma ancora a monte, mancherebbe un atto traslativo che possa giustificarla.

L'azione revocatoria, disciplinata dall'art. 2901 c.c., nota anche come azione pauliana, è un'azione disposta dall'ordinamento a favore dei creditori, con la quale, al sussistere di determinate condizioni, quest'ultimi possono domandare che siano dichiarati inefficaci nei loro confronti gli atti di disposizione del patrimonio, compiuti dal debitore in loro pregiudizio.

Tuttavia condicio sine qua non per la sua esperibilità  è che vi sia un atto dispositivo del patrimonio che, ancor prima che oneroso o gratuito, deve essere traslativo.

Quindi, la questione, come sottolineato anche dal Tribunale, è proprio quella di determinare se la scissione societaria possa qualificarsi come atto traslativo o meno.

Il Codice civile definisce, all'art. 2506 c.c., la scissione, totale o parziale, come quell'operazione con cui una società  assegna il proprio patrimonio a più società , preesistenti o di nuova costituzione. Che non si tratti di un vero e proprio atto traslativo di cespiti aziendali, ma semplicemente di una riallocazione degli asset, sembra emergere anche dal raffronto con la precedente formulazione dell'articolo sulle forme di scissione ante riforma. Mentre oggi, infatti, l'art. 2506 c.c. parla di "assegnazione", il precedente art. 2504 septies c.c. parlava, al contrario, di "trasferimento del patrimonio".

Secondo il Tribunale, pertanto, la scissione societaria, lungi dal rappresentare un atto traslativo, sarebbe, al contrario, un'operazione a formazione progressiva volta ad ottenere una nuova articolazione dell'ente nella prospettiva della continuità  patrimoniale e non un fenomeno successorio, dal momento che con essa si realizza solamente una riorganizzazione delle strutture societarie, che non vengono estinte. I cespiti patrimoniali vengono semplicemente riallocati in maniera diversa, attraverso la modifica dello statuto societario.

Che si tratti di una mera riorganizzazione è confermato anche dall'art. 2506 comma 3 c.c., che espressamente prevede che la società  scissa possa decidere se attuare il proprio scioglimento oppure continuare la propria attività .

Alla luce di tutte queste considerazioni emerge come, in assenza di un atto traslativo revocabile, venga meno la possibilità  per i creditori di azionare l'azione revocatoria, in relazione all'operazione di scissione che essi ritengano, in qualche maniera, lesiva della loro posizione creditoria.

I creditori già  esistenti prima della scissione non sono, tuttavia, privi di tutela. Possono innanzitutto, ai sensi dell'art. 2503 c.c., opporsi all'operazione entro il termine di legge e, in ogni caso, l'art. 2506 quater c.c. prevede che, dopo la scissione, le società  coinvolte nella scissione siano solidalmente responsabili, nei limiti del patrimonio netto loro assegnato o rimasto, dei debiti della società  scissa che siano rimasti insoddisfatti.

La scissione societaria non può essere oggetto di azione revocatoria secondo il Tribunale di Roma, sezione fallimentare, ordinanza del 7 novembre 2016, dal momento che quest'ultima sarebbe incompatibile con le garanzie e la disciplina della scissione societaria, ma ancora a monte, mancherebbe un atto traslativo che possa giustificarla.
L'azione revocatoria, disciplinata dall'art. 2901 c.c., nota anche come azione pauliana, è un'azione disposta dall'ordinamento a favore dei creditori, con la quale, al sussistere di determinate condizioni, quest'ultimi possono domandare che siano dichiarati inefficaci nei loro confronti gli atti di disposizione del patrimonio, compiuti dal debitore in loro pregiudizio.